Concilio di Trento.
I-VI sessione (1545-1547) | VII-XI sessione (1547) | XII-XVI sessione
(1551-1552)
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XVII-XXII sessione (1562-1563) | XXIII-XXIV sessione
(1563)
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XXV sessione (1563)
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SESSIONE XII (10 settembre 1551)
Decreto di proroga della sessione.
Il sacrosanto concilio ecumenico e generale Tridentino, legittimamente
riunito nello Spirito santo, sotto la presidenza dello stesso legato e degli
stessi nunzi della sede apostolica, che nella passata ultima sessione aveva
decretato che la seguente presente sessione avrebbe dovuto tenersi oggi per
procedere ad ulteriori argomenti, per l’assenza dell’illustre nazione Germanica
(il cui caso è principalmente in discussione) e per lo scarso numero degli
altri padri ha differito, finora, di procedere.
Ora esso, mentre si rallegra nel Signore per la venuta dei venerabili
fratelli in Cristo e figli suoi: gli arcivescovi di Magonza e di Treviri,
elettori del sacro romano impero, e di moltissimi vescovi di quella e di altre
province, avvenuta in questo stesso giorno, e rende degne grazie a Dio
onnipotente, e spera che moltissimi altri prelati, sia della stessa Germania
che di altre nazioni, mossi dalla considerazione del proprio dovere e da questo
esempio, possano presto venire, indice la futura sessione per il quarantesimo
giorno, ossia per l’11 di ottobre prossimo venturo. E proseguendo il concilio
dal punto in cui si trovava, stabilisce e dispone che, essendo stato definito
nelle sessioni passate quanto riguarda i sette sacramenti della nuova legge in
genere, e il battesimo e la confermazione in particolare, si debba discutere e
trattare del sacramento della santissima eucarestia, ed anche - per quanto
riguarda la riforma - delle altre cose, che riguardano una più facile e più
comoda residenza dei prelati.
Ammonisce anche ed esorta tutti i padri, perché frattanto, secondo
l’esempio del nostro signore Gesù Cristo (per quanto, naturalmente, lo
permetterà la fragilità umana), attendano ai digiuni e all’orazione, perché
finalmente Dio (che sia benedetto nei secoli!), placato, si degni ricondurre i
cuori alla conoscenza della sua vera fede, all’unità della santa madre chiesa e
alla norma del retto vivere.
SESSIONE XIII (11 ottobre 1551)
Decreto sul santissimo sacramento dell’eucarestia.
Il sacrosanto concilio ecumenico e generale Tridentino, legittimamente
riunito nello Spirito santo, sotto la presidenza dello stesso legato e degli
stessi nunzi della Sede Apostolica, benché non senza una particolare guida e
ammaestramento dello Spirito santo si sia raccolto per esporre, cioè, la vera e
antica dottrina della fede e dei sacramenti e rimediare a tutte le eresie e
agli altri gravissimi mali, da cui la chiesa di Dio è ora miseramente
travagliata e divisa in molte e diverse parti, questo, tuttavia, fin da
principio si prefisse in modo particolare: strappare dalle radici la zizzania
degli abominevoli errori e degli scismi, che il nemico in questi nostri tempi
procellosi ha sovraseminato (201) sulla dottrina
della fede, sull’uso e sul culto della sacrosanta eucarestia, che, d’altra
parte, il nostro Salvatore ha lasciato nella sua chiesa come segno di unita e
di amore, con cui volle che tutti i cristiani fosse congiunti ed uniti fra
loro.
Quindi lo stesso sacrosanto sinodo intende proporre su questo venerabile e
divino sacramento dell’eucarestia, la sana, pura dottrina che la chiesa
cattolica, istruita dallo stesso Gesù Cristo, nostro signore, e dagli apostoli,
e sotto l’influsso dello Spirito santo, che le suggerisce (202) di giorno in
giorno ogni verità, ha sempre ritenuto e riterrà fino alla fine del mondo.
Esso, quindi, proibisce a tutti i fedeli cristiani di osare in seguito, di
credere, insegnare o predicare diversamente da come è stato spiegato e definito
da questo presente decreto.
Capitolo I.
Della presenza reale del signore nostro Gesù Cristo nel santissimo
sacramento dell’eucarestia.
Prima di tutto questo santo sinodo insegna e professa chiaramente e
semplicemente che nel divino sacramento della santa eucarestia, dopo la
consacrazione del pane e del vino, è contenuto veramente, realmente e
sostanzialmente, sotto l’apparenza di quelle cose sensibili, il nostro signore
Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo.
Non sono, infatti, in contrasto fra loro questo due cose: che lo stesso
nostro Salvatore sieda sempre nei cieli alla destra del Padre, secondo il modo
naturale di esistere, e che, tuttavia, presente in molti altri luoghi, sia
presso di noi con la sua sostanza, sacramentalmente, con quel modo di
esistenza, che, anche se difficilmente possiamo esprimere a parole, possiamo,
tuttavia, comprendere con la nostra mente, illuminata dalla fede, essere
possibile a Dio (203), e che anzi dobbiamo credere fermissimamente. Questo,
infatti, tutti i nostri padri, che vissero nella vera chiesa di Cristo, e che
hanno trattato di questo santissimo sacramento, hanno professato
chiarissimamente: che il nostro Redentore ha istituito questo meraviglioso
sacramento nell’ultima cena, quando, dopo la benedizione del pane e del vino,
affermò con parole esplicite e chiare di dare ad essi il proprio corpo e il
proprio sangue.
Queste parole, riportate dai santi evangelisti (204), e ripetute poi da S.
Paolo (205), hanno per sé quel significato proprio e chiarissimo, secondo cui
sono state comprese dai padri, è pertanto sommamente indegno che esse vengano
distorte da alcuni uomini rissosi e corrotti a immagini fittizie e immaginarie,
con le quali è negata la verità della carne e del sangue di Cristo, contro il
senso generale della chiesa, la quale come colonna e sostegno della verità (206), ha detestato come sataniche queste costruzioni fantastiche, escogitate
da uomini empi, riconoscendo con animo sempre grato e memore questo
preziosissimo dono di Cristo.
Capitolo II.
Del modo come è stato istituito questo santissimo sacramento.
Il Signore, quindi, nell’imminenza di tornare da questo mondo al Padre,
istituì questo sacramento. In esso ha effuso le ricchezze del suo amore verso
gli uomini, rendendo memorabili i suoi prodigi (207), e ci ha comandato
(208) di onorare, nel riceverlo, la sua memoria e di annunziare la sua morte,
fino a che egli venga (209) a giudicare il mondo.
Egli volle che questo sacramento fosse ricevuto come cibo spirituale delle
anime, perché ne siano alimentate e rafforzate, vivendo della vita di colui,
che disse: Chi mangia me, anche lui vive per mezzo mio (210) e come
antidoto, con cui liberarsi dalle colpe d’ogni giorno ed essere preservati dai
peccati mortali.
Volle, inoltre, che esso fosse pegno della nostra gloria futura e della
gioia eterna; e quindi simbolo di quell’unico corpo, di cui egli è il capo
(211), e a cui volle che noi fossimo congiunti, come membra, dal vincolo
strettissimo della fede, della speranza e della carità, perché tutti
professassimo la stessa verità, e non vi fossero scismi fra noi (212).
Capitolo III.
Eccellenza della santissima eucarestia sugli altri sacramenti.
La santissima eucarestia ha questo di comune con gli altri sacramenti: che
è simbolo di una cosa sacra e forma visibile della grazia invisibile (213).
Tuttavia in essa vi è questo di eccellente e di singolare: che gli altri
sacramenti hanno il potere di santificare solo quando uno li riceve, mentre
nell’eucarestia vi è l’autore della santità già prima dell’uso. Difatti gli
apostoli non avevano ancora ricevuto l’eucarestia dalla mano del Signore (214)
e già Egli affermava che quello che Egli dava era il suo corpo. Sempre vi è
stata nella chiesa di Dio questa fede, che, cioè, subito dopo la consacrazione,
vi sia, sotto l’apparenza del pane e del vino, il vero corpo di nostro Signore e
il suo vero sangue, insieme con la sua anima e divinità. In forza delle parole,
il corpo è sotto la specie del pane e il sangue sotto la specie del vino; ma lo
stesso corpo sotto la specie del vino, e il sangue sotto quella del pane, e
l’anima sotto l’una e l’altra specie, in forza di quella naturale unione e
concomitanza, per cui le parti di Cristo Signore, che ormai è risorto dai morti
e non muore più (215), sono unite fra loro; ed inoltre la divinità per quella
sua ammirabile unione ipostatica col corpo e con l’anima.
È quindi verissimo che sotto una sola specie si contiene tanto, quanto
sotto l’una e l’altra. Cristo, infatti, è tutto e intero sotto la specie del
pane e sotto qualsiasi parte di questa specie; e similmente è tutto sotto la
specie del vino e sotto le sue parti.
Capitolo IV.
La transustanziazione.
Poiché, poi, Cristo, nostro redentore, disse che era veramente il suo corpo
ciò che dava sotto la specie del pane (216), perciò fu sempre persuasione,
nella chiesa di Dio, - e lo dichiara ora di nuovo questo santo concilio - che
con la consacrazione del pane e del vino si opera la trasformazione di tutta la
sostanza del pane nella sostanza del corpo di Cristo, nostro signore (217), e
di tutta la sostanza del vino nella sostanza del suo sangue.
Questa trasformazione, quindi, in modo adatto e proprio è chiamata dalla
santa chiesa cattolica transustanziazione.
Capitolo V.
Del culto e della venerazione dovuti a questo santissimo sacramento.
Non vi è, dunque, alcun dubbio che tutti i fedeli cristiani secondo l’uso
sempre ritenuto nella chiesa cattolica, debbano rendere a questo santissimo
sacramento nella loro venerazione il culto di latria, dovuto al vero Dio.
Non è, infatti, meno degno di adorazione, per il fatto che sia stato
istituito da Cristo signore per essere ricevuto. Crediamo, infatti, che è
presente in esso lo stesso Dio, di cui l’eterno Padre, introducendolo nel
mondo, dice: E lo adorino tutti i suoi angeli (218); che i magi,
prostrandosi, adorarono (219), che la scrittura attesta essere stato adorato in
Galilea dagli apostoli (220).
Dichiara, inoltre, il santo concilio, che con pensiero molto pio e
religioso è stato introdotto nella chiesa di Dio l’uso di celebrare ogni anno
con singolare venerazione e solennità e con una particolare festività questo
nobilissimo e venerabile sacramento, e di portarlo con riverenza ed onore per
le vie e per i luoghi pubblici, nelle processioni (221). È giustissimo,
infatti, che siano stabiliti alcuni giorni festivi, in cui tutti i cristiani
manifestino con cerimonie particolari e straordinarie il loro animo grato e
memore verso il comune Signore e Redentore, per un beneficio così ineffabile e
divino, con cui viene ricordata la sua vittoria e il suo trionfo sulla morte.
Ed era necessario che la verità trionfasse talmente sulla menzogna e
sull’eresia, perché i suoi avversari, posti dinanzi a tanto splendore e a tanta
letizia della chiesa universale, o vengano meno, disfatti e vinti, o presi e
confusi dalla vergogna, si ricredano.
Capitolo VI.
Della conservazione del sacramento della santa eucarestia e del dovere di
portarlo agli infermi.
L’uso di conservare la santa eucarestia in un tabernacolo è così antico che
fu conosciuto anche ai tempi del concilio di Nicea (222).
Che poi la stessa santa eucarestia venga portata agli infermi, e che a
questo scopo venga diligentemente conservata nelle chiese, oltre che esser
sommamente giusto e ragionevole, è anche comandato da molti concili (223) ed è
stato predicato con antichissima consuetudine dalla chiesa cattolica.
Questo santo sinodo, perciò, stabilisce che quest’uso del tutto salutare e
necessario debba esser conservato.
Capitolo VII.
Della preparazione necessaria per ricevere degnamente la santa eucarestia.
Se non è lecito ad alcuno partecipare a qualsiasi sacra funzione, se non
santamente, certo, quanto più il cristiano percepisce la santità e la divinità
di questo celeste sacramento, tanto più diligentemente deve guardarsi
dall’avvicinarsi a riceverlo senza una grande riverenza e santità, specie
quando leggiamo presso l’apostolo quelle parole, piene di timore: Chi mangia
e beve indegnamente, mangia e beve il proprio giudizio, non distinguendo il
corpo del Signore (221).
Chi, quindi, intende comunicarsi, deve richiamare alla memoria il suo
precetto: L’uomo esamini se stesso (225). E la consuetudine della chiesa
dichiara che quell’esame è necessario così che nessuno, consapevole di peccato
mortale, per quanto possa credere di esser contrito, debba accostarsi alla
santa eucarestia senza aver premesso la confessione sacramentale.
Il santo sinodo stabilisce che questa norma si debba sempre osservare da
tutti i cristiani, anche da quei sacerdoti che sono tenuti per il loro ufficio
a celebrare, a meno che non manchino di un confessore. Se poi, per necessità,
il sacerdote celebrasse senza essersi prima confessato, si confessi al più
presto.
Capitolo VIII.
Dell’uso di questo ammirabile sacramento.
Quanto al retto e sapiente uso, i nostri padri distinsero tre modi di
ricevere questo santo sacramento. Dissero, infatti, che alcuni lo ricevono solo
sacramentalmente, come i peccatori. Altri solo spiritualmente, quelli, cioè che
desiderando di mangiare quel pane celeste, loro proposto, con fede viva, che
agisce per mezzo dell’amore (226), ne sentono il frutto e l’utilità. Gli
altri lo ricevono sacramentalmente e spiritualmente insieme, e sono quelli che
si esaminano e si preparano talmente prima, da avvicinarsi a questa divina
mensa vestiti della veste nuziale (227).
Nel ricevere la comunione sacramentale fu sempre uso, nella chiesa di Dio,
che i laici la ricevessero dai sacerdoti; e che i sacerdoti che celebrano si
comunicassero da sé. Quest’uso, che deriva dalla tradizione apostolica, deve a
buon diritto esser osservato.
Finalmente questo santo sinodo con affetto paterno esorta, prega e
supplica, per la misericordia del nostro Dio (228), che tutti e singoli
i cristiani convengano una buona volta e siano concordi in questo segno di
unità, in questo legame di amore, in questo simbolo di concordia; e che, memori
di tanta maestà e di così meraviglioso amore di Gesù Cristo, nostro signore,
che sacrificò la sua vita diletta come prezzo della nostra salvezza, e ci diede
la sua carne da mangiare (229), credano e venerino questi sacri misteri del suo
corpo e del suo sangue con tale costanza e fermezza di fede, con tale devozione
dell’anima, con tale pietà ed ossequio, da poter ricevere frequentemente quel
pane supersostanziale (230), ed esso sia davvero per
essi vita dell’anima e perpetua sanità della mente, cosicché, rafforzati dal
suo vigore, da questo triste pellegrinaggio possano giungere alla patria
celeste, dove potranno mangiare, senza alcun velo, quello stesso pane degli
angeli (231), che ora mangiano sotto sacre specie.
Ma poiché non basta dire la verità, se non si scoprono e non si ribattono
gli errori, è piaciuto al santo sinodo aggiungere questi canoni, di modo che
tutti, conosciuta ormai la dottrina cattolica, sappiano anche da quali eresie
devono guardarsi e devono evitare.
CANONI SUL SANTISSIMO SACRAMENTO DELL’EUCARESTIA
1. Se qualcuno negherà che nel santissimo sacramento dell’eucarestia è
contenuto veramente, realmente, sostanzialmente il corpo e il sangue di nostro
signore Gesù Cristo, con l’anima e la divinità, e, quindi, tutto il Cristo, ma
dirà che esso vi è solo come in un simbolo o una figura, o solo con la sua
potenza, sia anatema.
2. Se qualcuno dirà che nel santissimo sacramento dell’eucarestia assieme
col corpo e col sangue di nostro signore Gesù Cristo rimane la sostanza del
pane e del vino e negherà quella meravigliosa e singolare trasformazione di
tutta la sostanza del pane nel corpo, e di tutta la sostanza del vino nel
sangue, e che rimangono solamente le specie del pane e del vino, -
trasformazione che la chiesa cattolica con termine appropriatissimo chiama
transustanziazione, - sia anatema.
3. Se qualcuno dirà che nel venerabile sacramento dell’eucarestia, fatta la
separazione, Cristo non è contenuto in ognuna delle due specie e in ognuna
delle parti di ciascuna specie, sia anatema.
4. Se qualcuno dirà che, fatta la consacrazione, nel mirabile sacramento
dell’eucarestia non vi è il corpo e il sangue del signore nostro Gesù Cristo,
ma solo nell’uso, mentre si riceve, e non prima o dopo; e che nelle ostie o
parti consacrate, che dopo la comunione vengono conservate e rimangono, non
rimane il vero corpo del Signore, sia anatema.
5. Se qualcuno dirà che il frutto principale della santissima eucarestia è
la remissione dei peccati, o che da essa non provengono altri effetti, sia
anatema.
6. Se qualcuno dirà che nel santo sacramento dell’eucarestia Cristo,
unigenito figlio di Dio, non debba essere adorato con culto di latria, anche
esterno; e, quindi, che non debba neppure esser venerato con qualche
particolare festività; ed esser portato solennemente nelle processioni, secondo
il lodevole ed universale rito e consuetudine della santa chiesa; o che non
debba essere esposto alla pubblica venerazione del popolo, perché sia adorato;
e che i suoi adoratori sono degli idolatri, sia anatema.
7. Se qualcuno dirà che non è lecito conservare la santa eucarestia nel
tabernacolo; ma che essa subito dopo la consacrazione debba distribuirsi agli
astanti; o non esser lecita che essa venga portata solennemente agli ammalati,
sia anatema.
8. Se qualcuno dirà che Cristo, dato nell’eucarestia, si mangia solo
spiritualmente, e non anche sacramentalmente e realmente, sia anatema.
9. Se qualcuno negherà che tutti e singoli i fedeli cristiani dell’uno e
dell’altro sesso, giunti all’età della ragione, sono tenuti ogni anno, almeno a
Pasqua, a comunicarsi, secondo il precetto della santa madre chiesa, sia anatema.
10. Se qualcuno dirà che non è lecito al sacerdote che celebra comunicare
se stesso, sia anatema.
11. Se qualcuno dirà che la fede è preparazione sufficiente per ricevere il
sacramento della santissima eucarestia, sia anatema.
E perché un così grande sacramento non sia ricevuto indegnamente e, quindi,
a morte e a condanna, lo stesso santo sinodo stabilisce e dichiara che quelli
che hanno la consapevolezza di essere in peccato mortale, per quanto essi
credano di essere contriti, se vi è un confessore, devono necessariamente
premettere la confessione sacramentale.
Se poi qualcuno crederà di poter insegnare, predicare o affermare
pertinacemente il contrario, o anche difenderlo in pubblica disputa, perciò
stesso sia scomunicato.
Decreto di riforma.
Lo stesso santo concilio Tridentino, riunito legittimamente nello Spirito
santo, sotto la presidenza dello stesso legato e degli stessi nunzi della sede
apostolica, volendo stabilire alcune norme sulla giurisdizione dei vescovi;
perché essi, conformemente al decreto dell’ultima sessione, tanto più
volentieri risiedano nelle chiese loro affidate, quanto più facilmente e
opportunamente possono governare e contenere i loro soggetti nell’onestà della
vita e dei costumi, crede bene, come prima cosa, ammonirli di ricordarsi che
essi sono dei pastori, non dei tiranni (232), e che è necessario comandare ai
sudditi non in modo da dominare su di essi, ma da amarli come figli e fratelli;
e a far sì che, esortando ed ammonendo, li allontanino da ciò che è illecito,
perché non debbano poi, una volta che abbiano mancato, punirli con le pene
dovute.
E tuttavia, se essi dovessero mancare in qualche cosa per umana fragilità,
devono osservare quel precetto dell’apostolo: di riprenderli, cioè, di
pregarli, di rimproverarli con ogni bontà e pazienza (233): poiché spesso con
quelli che devono essere corretti vale più la benevolenza, che la severità; più
l’esortazione, che le minacce, più l’amore che lo sfoggio di autorità (234).
Se poi fosse necessario, per la gravità della mancanza, usare la verga,
allora con la mansuetudine bisogna usare il rigore, con la misericordia il
castigo, con la bontà la severità, perché, pur senza asprezza, sia conservata
quella disciplina che è salutare e necessaria ai popoli; e quelli che vengono
corretti, si emendino, o se non volessero tornare sulla buona via, gli altri si
astengano dai vizi con l’esempio salutare della punizione contro di essi,
essendo ufficio del pastore diligente e pio, prima usare i rimedi più miti per
i mali delle sue pecore; poi, se la gravità della malattia lo richieda,
procedere a rimedi più forti e più gravi. E se neppure questi portassero a
qualche risultato, egli dovrà evitare il pericolo del contagio almeno per le
altre pecore, separandole (235).
Poiché, quindi, i rei di delitti, spesso, per evitare le pene e per
sfuggire il giudizio dei vescovi adducono lamenti e aggravi e col diversivo
dell’appello impediscono il processo del giudice, perché essi non debbano
abusare di un rimedio, istituito a difesa dell’innocenza, a favore della loro
malvagità, e, quindi, perché si possa ovviare alla loro furberia e alla loro
tergiversazione, così, il santo concilio stabilisce e decreta:
Canone I
Nelle cause che riguardano la visita e la correzione, o la capacità e
l’inabilità, così pure in quelle criminali, prima della sentenza definitiva non
si appelli contro il vescovo o il suo vicario generale per le questioni
religiose, per la sentenza interlocutoria o per qualsiasi altro aggravio; e il
vescovo, o il suo vicario, non sono tenuti a tener conto di questo appello,
considerandolo di nessuna importanza. Non ostante questo appello, anzi, e
qualsiasi proibizione emanata dal giudice di appello, ed ogni uso e
consuetudine contraria, anche immemorabile, essi possano procedere oltre, a
meno che questo aggravio non possa essere riparato con la sentenza definitiva,
o non si possa fare appello dalla sentenza definitiva. In questi casi rimangono
intatte le norme degli antichi canoni (236).
Canone II
Una causa di appello in materia criminale (dove l’appello è ammesso) contro
la sentenza del vescovo, o del suo vicario generale, se dev’essere assegnata in partibus per autorità apostolica, sia affidata al
metropolita, o anche al suo vicario generale per gli affari spirituali; o, se
egli per qualche motivo fosse sospetto, o fosse lontano più dei due giorni di
cammino legali, o fosse stato appellato contro di lui ad uno dei vescovi più
vicini o ai loro vicari; mai però a giudici inferiori.
Canone III
Il reo che, in una causa criminale, si appella dal vescovo, o dal suo
vicario generale nelle cose spirituali, deve portare senz’altro dinanzi al
giudice, a cui si è appellato, gli atti della prima istanza; ed il giudice non
proceda alla sua assoluzione se non dopo aver visto questi atti.
Chi ha appellato entro i trenta giorni consegni gratuitamente gli stessi
atti; in caso contrario, la causa di appello sia conclusa senza di essi, come
la giustizia richiederà.
Qualche volta, inoltre, i delitti commessi dalle persone ecclesiastiche
sono talmente gravi, che per la loro atrocità meritano di esser deposte dai
sacri ordini e consegnate al braccio secolare. In tali casi si richiede,
secondo i sacri canoni, un dato numero di vescovi; dato che, se fosse difficile
poterli avere tutti, ne sarebbe differita la debita esecuzione del diritto; e
se qualche volta potessero radunarsi, sarebbe interrotta la loro residenza, il
santo concilio ha stabilito e deciso:
Canone IV
Sia lecito a un vescovo, personalmente o per mezzo d suo vicario generale
per le cose spirituali, procedere anche alla condanna e alla deposizione
verbale di un chierico costituito negli ordini sacri e anche nel presbiterato;
personalmente, (può procedere) anche alla degradazione attua e solenne dagli
stessi ordini e gradi ecclesiastici, - nei casi in cui si richiede la presenza
degli altri vescovi in un numero definito dai canoni, - anche senza di essi,
chiamando tuttavia, e facendosi assistere in ciò da altrettanti abati che
abbiano l’uso della mitra e del pastorale per privilegio apostolico, se possono
facilmente trovarsi nella città e nella diocesi e possono agevolmente esser
presenti. In caso diverso, si facciano assistere da altre persone costituite in
dignità ecclesiastica, insigni per età e raccomandabili per la conoscenza del
diritto.
E poiché con finti motivi - che tuttavia sembrano assai plausibili -
avviene qualche volta, che qualcuno strappi tali grazie, per cui o vengono del
tutto condonate o vengono diminuite le pene inflitte loro dai vescovi con
giusta severità, non dovendosi soffrire che la menzogna, che tanto dispiace a
Dio, non solo rimanga impunita in se stessa, ma ottenga anche il perdono di un
alto delitto per chi mentisce, il santo concilio
stabilisce e dispone:
Canone V
Il vescovo, residente nella sua chiesa, in caso di reticenza o falsità per
ottenere una grazia, impetrata con false preghiere (circa l’assoluzione di un
pubblico crimine o delitto di cui egli aveva già cominciato l’inchiesta
giudiziaria; circa la remissione di una pena, alla quale chi ha commesso il
crimine fosse stato già da lui condannato) ne prenda personale conoscenza,
anche sommariamente, come delegato della sede apostolica e quando consti
legittimamente che la stessa grazia sia stata ottenuta con la narrazione del
falso o con la dissimulazione della verità, non riconosca tale grazia.
Poiché i sudditi, anche se siano stati a buon diritto corretti (dal
vescovo), sono soliti odiarlo moltissimo e, quasi che avessero ricevuto
ingiuria, accusarlo di falsi crimini, per dargli in qualsiasi modo fastidio, e
così il timore delle noie, cui va incontro, lo rende tardo nel ricercare e
punire i loro delitti; per questo, affinché egli non sia costretto, con danno
suo e della chiesa, ad abbandonare il gregge che gli è stato affidato, e ad
andare qua e là, non senza diminuzione della dignità vescovile, il concilio ha
stabilito e deciso:
Canone VI
Il vescovo non sia in nessun modo citato o ammonito a comparire
personalmente, se non per un motivo per cui dovrebbe esser deposto o privato
della sua dignità, anche se si procede ex officio, o per inquisizione o
denunzia, o per accusa, o in qualsiasi altro modo.
Canone VII
I testimoni di informazioni o indizi in una causa criminale o, comunque, in
una causa principale contro un vescovo, non siano ammessi, se la loro
testimonianza non conviene con quella di altri e se non sono di buona condotta,
di buona fama, e di buona stima. Se poi deponessero qualche cosa per odio, per
temerità e per cupidigia, siano puniti gravemente.
Canone VIII
Le cause dei vescovi, quando per la natura del delitto loro contestato
debbano comparire dinanzi al giudice, siano portate dinanzi al sommo pontefice,
e da lui siano concluse.
Decreto di proroga per la definizione dei quattro articoli sul sacramento dell’eucarestia
e del salvacondotto.
Lo stesso santo sinodo, desiderando togliere, come spine dal campo del
Signore, tutti gli errori, che sono recentemente ripullulati intorno a questo
santissimo sacramento, e provvedere alla salvezza di tutti i fedeli, dopo aver
offerto piamente a Dio onnipotente quotidiane preghiere, tra gli altri
articoli, riguardanti questo sacramento, trattati con diligentissima ricerca
della verità cattolica, dopo moltissime discussioni, come richiedeva la gravità
dell’argomento, dopo aver chiesto il parere di teologi di primo piano, avrebbe
voluto trattare anche questi:
1. Se sia necessario alla salvezza e comandato dalla legge divina, che i
singoli fedeli ricevano lo stesso venerabile sacramento sotto le due specie.
2. Se per caso chi si comunica sotto una sola specie, non riceva meno di
chi si comunica sotto tutte e due.
3. Se la santa madre chiesa non abbia errato dando la comunione ai laici e
a quelli che non celebrano sotto una sola specie.
4. Se anche i bambini debbano ricevere la comunione.
Ma poiché dalla nobilissima provincia della Germania quelli che si dicono
"Protestanti" desiderano essere ascoltati dal santo concilio su
questi stessi articoli, prima che siano definiti; ed a questo scopo hanno
chiesto ad esso un pubblica garanzia, perché possano senza alcun pericolo
venire qua, dimorare in questa città, parlare liberamente al concilio e
proporre quello che essi pensano, e poi, quando credono, potersene tornare,
questo santo sinodo, quantunque abbia atteso con grande desiderio la loro
venuta già per molti mesi, tuttavia, come pia madre che geme e partorisce (237), desiderando sommamente e volendo far del suo meglio perché non vi siano
scismi tra i cristiani (238), e che, come tutti riconoscono lo stesso Dio e
Redentore, così dicano, credano e professino le stesse cose (239), confidando
nella divina misericordia e sperando che essi possano essere ricondotti alla
santissima e salutare concordia di una sola fede, speranza e carità, volentieri
usa loro questo riguardo e ha dato e concesso la sicurezza e la pubblica
assicurazione, o salvacondotto, come hanno chiesto, per quanto lo riguarda, nel
modo che seguirà, e per loro riguardo ha rimandato la definizione di quegli
articoli alla seconda sessione, che ha indetto per la festa della conversione
di S. Paolo, che sarà il 25 del mese di gennaio del prossimo anno. Ciò perché
essi possano con loro comodo essere presenti.
Stabilisce, inoltre, che in quella stessa sessione si tratti del sacrificio
della messa, per lo stretto legame che vi è fra l’uno e l’altro argomento.
Intanto ha stabilito che nella prossima sessione debba trattarsi dei
sacramenti della penitenza e dell’estrema unzione; che essa debba tenersi nella
festa di santa Caterina vergine e martire, che sarà il 25 di novembre; ed anche
che nell’una e nell’altra sessione venga proseguita la materia della riforma.
Salvacondotto dato ai protestanti tedeschi dal sacro concilio di Trento.
Il sacrosanto concilio generale di Trento, legittimamente riunito nello
Spirito santo, sotto la presidenza dello stesso legato e degli stessi nunzi
della santa sede, concede - per quanto spetta ad esso - la pubblica fede e la
piena sicurezza che chiamano "Salvacondotto" - a tutte e singole
quelle persone, sia ecclesiastiche che secolari, di tutta la Germania, di
qualsiasi grado, stato, condizione e qualità esse siano, le quali vorranno
venire a questo concilio ecumenico e generale, perché possano con tutta libertà
conferire, proporre e trattare di quegli argomenti che devono esser trattati
nello stesso concilio; perché possano liberamente e con tranquillità venire
allo stesso concilio ecumenico e rimanere e dimorare in esso, proporre, sia per
iscritto, che oralmente, tutti quegli articoli che vorranno, e discutere con i
Padri o con quelli che saranno stati scelti dallo stesso sinodo e disputare,
senza usare modi ingiuriosi ed offensivi; e che, inoltre, quando essi
crederanno, possano tornarsene via.
Concediamo questo salvacondotto con tutte e singole le clausole e i decreti
necessari ed opportuni, anche se essi dovessero essere espressi in modo
speciale e non con espressioni generiche, e che si intendono come espressi.
È sembrato bene, inoltre, al santo sinodo che se essi per loro maggiore
libertà e sicurezza, desiderassero che vengano scelti dei giudici, sia per i
delitti già perpetrati che per quelli che possano esser commessi da loro in
futuro, li nominino pure a loro gradimento, anche se gli stessi delitti fossero
enormemente grandi e riguardassero l’eresia.
SESSIONE XIV (25 novembre 1551)
Dottrina dei santissimi sacramenti della penitenza e dell’estrema unzione.
Il sacrosanto concilio ecumenico e generale Tridentino, riunito
legittimamente nello Spirito santo, sotto la presidenza dello stesso legato e
degli stessi nunzi della santa sede, quantunque del sacramento della penitenza
si sia parlato molto nel decreto sulla giustificazione quasi necessariamente,
per la stretta relazione degli argomenti, è tanto, tuttavia, in questa nostra
età, il cumulo dei diversi errori su di esso, che non sarà di poca utilità
pubblica dare di esso una definizione più esatta e più completa. In essa, messi
a nudo e abbattuti tutti gli errori con l’aiuto dello Spirito santo, la verità
cattolica diverrà più chiara e più evidente. Questo santo sinodo la propone ora
a tutti i cristiani, perché la conservino per sempre.
Capitolo I.
Della necessità e della istituzione del sacramento della penitenza.
Se in tutti i rigenerati la gratitudine verso Dio fosse tale, da conservare
per sempre la giustizia ricevuta, per suo beneficio e grazia, nel battesimo,
non sarebbe stato necessario che fosse istituito un altro sacramento diverso
dal battesimo stesso, per la remissione dei peccati.
Ma Dio, ricco di misericordia (240), conosce la nostra debolezza (241), ha trovato il rimedio della vita anche per quelli che si fossero, poi,
consegnati alla schiavitù del peccato e al potere dei demoni, e cioè il
sacramento della penitenza, con cui a chi cade dopo il battesimo, è applicato
il beneficio della morte di Cristo.
La penitenza è stata sempre necessaria, per conseguire la grazia e la
giustificazione, a qualsiasi uomo, che si fosse macchiato di peccato mortale,
anche a quelli che domandano di essere lavati col sacramento del battesimo,
perché, rinunciando al male e correggendolo, mostrassero di detestare una così
grande offesa, fatta a Dio, con l’odio del peccato e col pio dolore dell’anima.
Per questo il profeta disse: Convertitevi e fate penitenza di tutte le
vostre iniquità, e l’iniquità non vi sarà di rovina (242). Anche il Signore
disse: Se non farete penitenza, perirete tutti allo stesso modo (243). E
Pietro, il primo degli apostoli, ai peccatori che si preparavano al battesimo
diceva, raccomandando la penitenza: Fate penitenza, e ognuno di voi sia
battezzato (244).
La penitenza, inoltre, né prima della venuta del Cristo era un sacramento,
né dopo la sua venuta, per nessuno, prima del battesimo. Il Signore, poi,
istituì il sacramento della penitenza principalmente quando, risorto dai morti,
soffiò sui suoi discepoli dicendo: Ricevete lo Spirito santo; a coloro, cui
rimetterete i peccati, saranno rimessi. A coloro cui li riterrete, saranno
ritenuti (245).
Che con questo avvenimento così importante e con queste parole così chiare,
sia stato comunicato agli apostoli e ai loro legittimi successori il potere di
rimettere o di ritenere i peccati, per riconciliare i fedeli caduti dopo il
battesimo, il consenso di tutti i padri l’ha sempre così interpretato e la
chiesa cattolica rigettò e condannò con piena ragione come eretici i Novaziani,
che un tempo negavano ostinatamente il potere di rimettere i peccati.
Perciò questo santo sinodo, approvando e accogliendo questo verissimo senso
di quelle parole del Signore, condanna le fantastiche interpretazioni di quelli
che traggono falsamente quelle parole a significare il potere di predicare la
parola di Dio e di annunziare il vangelo del Cristo, contro l’istituzione di
questo sacramento.
Capitolo II.
Differenza tra il sacramento della penitenza e il battesimo.
Del resto questo sacramento differisce dal battesimo per molte ragioni.
Infatti, oltre che esser diversissimi per la materia e la forma, che
costituiscono l’essenza del sacramento, è certo che il ministro del battesimo
non deve essere un giudice. La chiesa, infatti, non esercita su nessuno il suo
giudizio, se prima non è entrato a far parte di essa attraverso la porta del
battesimo. Che interessa a me (afferma l’apostolo) giudicare quelli
che sono fuori? (246).
Diversamente, invece, agisce con quelli che sono suoi familiari nella fede
(247), una volta che il signore Gesù li ha fatti membra del suo corpo col
lavacro del battesimo (248). Se questi, infatti, dopo, si fossero contaminati
con qualche peccato, essa volle non già che fossero purificati ripetendo il
battesimo (cosa che nella chiesa cattolica non è in nessun modo possibile), ma
che comparissero dinanzi a questo tribunale come rei, affinché con la sentenza
del sacerdote potessero essere liberati non una volta soltanto, ma tutte le
volte che, pentendosi dei peccati commessi, cercassero rifugio presso di lui.
Altro, poi, è il frutto del battesimo, altro quello della penitenza. Col
battesimo, infatti, rivestendo Cristo (249), diventiamo in lui una creatura del
tutto nuova, conseguendo la piena e totale remissione di tutti i peccati. Ora
col sacramento della penitenza non è possibile giungere ad un tale rinnovamento
ed integrità senza grandi gemiti e fatiche, date le esigenze della divina
giustizia. Così che a buon diritto la penitenza è stata chiamata dai santi
padri (250), in certo modo, un battesimo laborioso.
Per coloro che sono caduti dopo il battesimo questo sacramento della
penitenza è necessario alla salvezza, come lo stesso battesimo per quelli che
non sono stati ancora rigenerati.
Capitolo III.
Parti e frutto di questo sacramento.
Insegna, inoltre, il santo sinodo, che la forma del sacramento della
penitenza, nella quale è posta tutta la sua efficacia, è in quelle parole del
ministro: lo ti assolvo ecc., alle quali, nell’uso della santa chiesa, si
aggiungono lodevolmente alcune preghiere, ma che non appartengono in nessun
modo all’essenza della forma e non sono necessarie all’amministrazione del
sacramento.
Sono quasi materia di questo sacramento gli atti dello stesso penitente e
cioè: la contrizione, la confessione, la soddisfazione. E poiché questi si richiedono,
nel penitente, per l’integrità del sacramento e per la piena e perfetta
remissione dei peccati, per questo sono considerati parti della penitenza.
Sostanza ed effetto di questo sacramento, per quanto riguarda la sua azione
e la sua efficacia, è la riconciliazione con Dio, che non di rado nelle persone
pie e che ricevono questo sacramento con devozione, suole essere accompagnata
da pace e serenità della coscienza e da vivissima consolazione dello spirito.
Insegnando queste cose sulle parti e sull’effetto di questo sacramento, il
concilio condanna nello stesso tempo le opinioni di coloro che affermano essere
parti della penitenza i terrori della coscienza e la fede.
Capitolo IV.
La contrizione
La contrizione, che tra i suddetti atti del penitente
occupa il primo posto, è il dolore dell’animo e la detestazione del peccato
commesso, col proposito di non peccare più in avvenire.
Questo atto della contrizione è stato sempre necessario per impetrare la
remissione dei peccati. Nell’uomo caduto in peccato dopo il battesimo, esso
prepara alla remissione dei peccati solo se congiunto con la fiducia della
divina misericordia e col desiderio di fare ciò che ancora si richiede per
ricevere nel modo dovuto questo sacramento.
Dichiara, quindi, il santo sinodo, che questa contrizione include non solo
la cessazione del peccato e il proposito e l’inizio di una nuova vita, ma anche
l’odio della vecchia vita, conforme all’espressione: Allontanate da voi
tutte le vostre iniquità, con cui avete prevaricato e costruitevi un cuore
nuovo ed un’anima nuova (251).
Certamente colui che riflette su quelle grida dei santi: Ho peccato
contro te solo ed ho compiuto il male contro di te (252); sono stanco di
gemere, vado lavando ogni notte il mio giaciglio (253); ripenserò a
tutti i miei anni, nell’amarezza della mia anima (254), e su altre simili,
comprenderà facilmente che esse provenivano da un odio veramente profondo della
vita passata e da una grande detestazione del peccato.
Insegna, inoltre, il concilio che, se anche avviene che questa contrizione
talvolta possa esser perfetta nell’amore, e riconcilia l’uomo con Dio, già
prima che questo sacramento realmente sia ricevuto, tuttavia questa
riconciliazione non è da attribuirsi alla contrizione in sé senza il proposito
di ricevere il sacramento incluso in essa.
E dichiara anche che quella contrizione imperfetta, che vien detta
‘attrizione’ perché prodotta comunemente o dalla considerazione della bruttezza
del peccato o dal timore dell’inferno e delle pene, se esclude la volontà di peccare
con la speranza del perdono, non solo non rende l’uomo ipocrita e maggiormente
peccatore, ma è addirittura un dono di Dio ed un impulso dello Spirito santo, -
che non abita ancora nell’anima, ma che soltanto la sprona - da cui il
penitente viene stimolato e con cui si prepara la via alla giustizia. E
quantunque per sé, senza il sacramento della penitenza, sia impotente a
condurre il peccatore alla giustificazione, tuttavia lo dispone ad impetrare la
grazia di Dio nel sacramento della penitenza.
Scossi, infatti, salutarmente da questo timore, gli abitanti di Ninive fecero penitenza alla predicazione di Giona, piena
di minacce. Ed ottennero misericordia da Dio (255).
Perciò falsamente alcuni accusano gli scrittori cattolici, quasi abbiano
insegnato che il sacramento della penitenza conferisca la grazia senza un moto
interiore, buono, di chi lo riceve: cosa che la chiesa di Dio non ha mai
insegnato e mai creduto.
Ma anche questo insegnano falsamente: che, cioè, la contrizione sia cosa
estorta e forzata, non libera e volontaria.
Capitolo V.
La confessione.
Dalla istituzione del sacramento della penitenza già spiegata, tutta la
chiesa ha sempre creduto che sia stata istituita anche, dal Signore, la
confessione completa dei peccati (256) e che per tutti quelli che dopo il
battesimo siano caduti in peccato essa sia necessaria iure divino; Gesù
Cristo, infatti, nostro signore, poco prima di salire dalla terra in cielo,
lasciò i sacerdoti, suoi vicari (257), come capi e giudici (258), cui devono
deferirsi tutte le colpe mortali, in cui i fedeli cristiani fossero caduti,
perché, in virtù del potere delle chiavi, pronunzino la sentenza di remissione
o di retenzione. È chiaro, infatti, che i sacerdoti
non avrebbero potuto esercitare questo giudizio senza conoscere la causa né
imporre le penitenze con equità, se i penitenti avessero dichiarato i loro
peccati solo genericamente, e non invece, nella loro specie ed uno per uno.
Si conclude da ciò che è necessario che i penitenti manifestino nella
confessione tutti i peccati mortali, di cui hanno consapevolezza dopo un
diligente esame di coscienza, anche se essi sono del tutto nascosti e sono
stati commessi soltanto contro i due ultimi comandamenti del Decalogo (259),
che spesso feriscono più gravemente l’anima, e sono più pericolosi di quelli
che si commettono alla luce del sole.
I veniali, infatti, dai quali non siamo privati della grazia di Dio, e nei
quali cadiamo più facilmente, benché opportunamente ed utilmente e al di fuori
di ogni presunzione vengano manifestati in confessione (come dimostra l’uso di
persone pie), possono tuttavia esser taciuti senza colpa ed espiati con molti
altri rimedi. Ma poiché tutti i mortali, anche solo di pensiero, rendono gli
uomini figli dell’ira (260) e nemici di Dio, è anche necessario chiedere
perdono di tutti a Dio con una esplicita ed umile confessione.
Quindi, mentre i fedeli cristiani si studiano di confessare tutti i peccati
che vengono loro in mente, senza dubbio li espongono tutti alla divina
misericordia perché li perdoni. Quelli, invece, che fanno diversamente e ne
tacciono consapevolmente qualcuno, non espongono nulla alla divina bontà perché
li perdoni per mezzo del sacerdote. Se infatti l’ammalato si vergognasse di
mostrare al medico la ferita, il medico non potrebbe curare quello che non
conosce.
Si deduce, inoltre, che nella confessione debbano manifestarsi anche quelle
circostanze che mutano la specie del peccato: senza di esse, infatti, né il
penitente espone completamente gli stessi peccati, né questi potrebbero venir
conosciuti dai giudici e sarebbe impossibile ad essi percepire esattamente la
gravità delle colpe ed imporre per essa ai penitenti la pena dovuta.
Non è quindi ragionevole insegnare che queste circostanze sono state
inventate da uomini oziosi o che debba confessarsi questa sola circostanza: che
si è peccato contro il fratello.
Ed è empio affermare che una tale confessione sia impossibile o chiamarla
carneficina delle coscienze. Tutti sanno, infatti, che la chiesa nient’altro
richiede da chi si confessa, se non di confessare - dopo che ciascuno si è
diligentemente esaminato ed ha esplorato tutti gli angoli più riposti della sua
coscienza - quei peccati, con cui egli si ricorda di aver offeso mortalmente il
suo Signore e suo Dio; gli altri peccati, che, pur esaminandosi diligentemente,
non gli vengano in mente, si ritengono inclusi genericamente nella stessa
confessione. Per questi noi diciamo con fede assieme al profeta: Dai miei
peccati occulti, purificami, Signore (261).
Quanto poi alla difficoltà di questa confessione e alla vergogna di dover
manifestare i peccati, può sembrare certamente grave; ma essa è alleggerita dai
tanti e così grandi vantaggi e consolazioni, che con l’assoluzione vengono
certissimamente elargiti a tutti quelli che si accostano degnamente a questo
sacramento.
Del resto, per quanto riguarda il modo di confessarsi segretamente dinanzi
al solo sacerdote, quantunque Cristo non abbia proibito che uno, in punizione
dei suoi peccati e per propria umiliazione, sia come esempio per gli altri, che
per edificazione della Chiesa, che è stata offesa, possa confessare
pubblicamente i suoi peccati, ciò non è comandato da alcuna legge divina; e non
sarebbe saggio comandare con una legge umana che si manifestassero le colpe,
specie se segrete, con una pubblica confessione.
Poiché, quindi, la confessione sacramentale segreta, che la santa chiesa ha
usato fin dall’inizio ed usa ancora, è stata sempre raccomandata con grande,
unanime consenso dai padri più santi e più antichi, evidentemente risulta vana
la calunnia di coloro che non hanno scrupolo di insegnare che essa è aliena dal
comando divino, che è invenzione umana, e che ha avuto inizio dai padri del
concilio Lateranense. La chiesa, infatti, col concilio Lateranense non ha
stabilito che i fedeli cristiani si confessassero, - cosa che essa sapeva bene
essere necessaria ed essere stata istituita dal diritto divino -, ma che
l’obbligo della confessione venisse adempiuto almeno una volta all’anno da
tutti e singoli quelli che fossero giunti all’età della ragione (262).
È per questo che in tutta la chiesa è invalso l’uso salutare, con
grandissimo frutto per le anime, di confessarsi durante il tempo sacro e
sommamente accetto della Quaresima. Quest’uso, il santo sinodo lo approva
sommamente e lo abbraccia come pio e degno di essere conservato.
Capitolo VI.
Del ministro di questo sacramento e dell’assoluzione.
Quanto al ministro di questo sacramento, il santo sinodo dichiara, che sono
false e del tutto aliene dalla verità del vangelo tutte quelle dottrine che
estendono perniciosamente a qualsiasi altro uomo, oltre i vescovi e i
sacerdoti, il ministero delle chiavi. Esse ritengono che quelle parole del
Signore: Tutto ciò che legherete sulla terra, sarà legato anche in cielo, e
tutto ciò che scioglierete sulla terra, sarà sciolto anche in cielo (263)
e: a quelli, di cui avrete rimesso i peccati, saranno rimessi, a quelli, di
cui li avrete ritenuti, saranno ritenuti (264) siano state dette a tutti i
fedeli del Cristo, senza differenza alcuna e senza distinzione, contro
l’istituzione di questo sacramento; così che ognuno abbia il potere di
rimettere i peccati: quelli pubblici con la correzione, se chi viene corretto
si sottomette; i segreti, attraverso una spontanea confessione, fatta a
chiunque.
Il concilio insegna pure che anche quei sacerdoti che sono in peccato
mortale, per la grazia dello Spirito santo, conferita nell’ordinazione,
esercitano la funzione di perdonare i peccati come ministri di Cristo e che non
giudicano secondo verità quelli che sostengono che questo potere manchi ai
sacerdoti cattivi.
Quantunque, poi, l’assoluzione del sacerdote sia l’elargizione di un
beneficio che si fa ad altri, essa non è soltanto un nudo ministero di
annunziare il vangelo o di dichiarare rimessi i peccati, ma come un atto
giudiziario, essa è pronunciata come la sentenza di un giudice.
Perciò il penitente non deve compiacersi tanto della sua fede, da credere
che, se anche non avesse alcuna contrizione, o mancasse al sacerdote l’intenzione
di agire seriamente o di assolvere, egli sia davvero assolto, dinanzi a Dio,
per la sola fede. La fede, infatti, non potrebbe operare in nessun modo la
remissione dei peccati e si dimostrerebbe negligentissimo della sua salvezza, chi si accorgesse che un sacerdote lo assolve per ischerzo, e non ne cercasse diligentemente un altro.
Capitolo VII.
Dei casi riservati.
Poiché la natura e l’indole del giudizio richiede che la sentenza venga
pronunziata solo sui sudditi, vi è stata sempre nella chiesa di Dio questa
persuasione - e questo sinodo conferma essere verissimo - che debba essere di
nessun valore quell’assoluzione che il sacerdote pronuncia su colui sul quale
non abbia giurisdizione, ordinaria o delegata.
È sembrato anche ai santissimi nostri padri essere del più grande interesse
per la formazione del popolo cristiano, che alcuni peccati più orribili e più
gravi venissero assolti non da chiunque, ma solo dai sommi sacerdoti.
Giustamente, quindi, i pontefici massimi, in forza di quel supremo potere che è
stato loro conferito su tutta la chiesa, hanno potuto riservare al loro
particolare giudizio alcuni casi di colpe.
Né deve mettersi in dubbio (dato che tutto ciò che viene da Dio, è ordinato
(265)) che la stessa cosa sia concessa a tutti i vescovi, ciascuno nella sua
diocesi, — in edificazione, tuttavia, non in distruzione (266) —
per quella autorità che è stata loro conferita sui sudditi in confronto agli
altri sacerdoti inferiori, specie per quelle colpe, cui è annessa la censura di
scomunica.
È anche in armonia con l’autorità divina che questa riserva delle colpe
abbia forza non solo nella vita esterna della società, ma anche dinanzi a Dio.
E tuttavia con disposizione sommamente pia, perché nessuno a causa di ciò
debba perire, si ebbe sempre cura nella chiesa di Dio, che non vi fosse alcuna
riserva in punto di morte; e quindi tutti i sacerdoti possono assolvere
qualsiasi penitente da qualsiasi peccato e da qualsiasi censura.
Fuori di questo caso, però, i sacerdoti, non avendo alcun potere nei casi
riservati, cerchino di persuadere i penitenti di quest’unica cosa: che per la
grazia dell’assoluzione vadano dai superiori e legittimi giudici.
Capitolo VIII.
Della necessità e del frutto della soddisfazione.
Finalmente, quanto alla soddisfazione - che, come fra tutte le parti della
penitenza è stata sempre raccomandata al popolo cristiano dai nostri padri,
così in questa nostra età è quella che, sotto il pretesto di una vivissima
pietà, viene maggiormente presa d’assalto da coloro che mostrano certamente l’apparenza
della pietà, ma ne negano la sostanza - il santo sinodo dichiara essere
assolutamente falso e lontano dalla parola di Dio, che dal Signore mai venga
rimessa la colpa, senza che venga completamente rimessa anche la pena. Vi sono
infatti, nella sacra Scrittura, esempi chiari ed evidenti, da cui, al di fuori
della divina tradizione, questo errore può essere confutato (267).
Del resto, sembra anche conforme alla divina giustizia, che siano
diversamente ammessi alla grazia divina quelli che prima del battesimo hanno
peccato per ignoranza, e quelli che, una volta liberati dalla servitù del
peccato e del demonio e ricevuto il dono dello Spirito santo, non hanno avuto
ritegno a violare consapevolmente il tempio di Dio (268) e a contristare lo
Spirito santo (269).
Ed è conforme alla divina clemenza, che non ci vengano rimessi i peccati
senza alcuna nostra soddisfazione, perché non avvenga che noi, prendendo
occasione da ciò, e credendo tutti i peccati leggeri, come gente sempre pronta
a recare ingiuria ed offesa allo Spirito santo (270), cadiamo in peccati più
gravi, accumulando su noi la collera per il giorno dell’ira (271).
Senza dubbio, infatti, ci trattengono molto dal peccato e quasi ci
reprimono come un freno, queste pene imposte a soddisfazione e rendono assai
più cauti e vigilanti i penitenti per il futuro. Sono anche una medicina per
ciò che rimane del peccato e, con le azioni contrarie delle virtù,
contribuiscono a togliere le cattive abitudini acquistate col mal vivere.
Nella chiesa di Dio mai si è creduto che si potesse trovare una via più
sicura per allontanare una punizione imminente da parte di Dio di quella che
gli uomini pratichino queste opere di penitenza (272) con vero dolore
dell’animo.
Si aggiunge che mentre soffriamo in soddisfazione per i nostri peccati, noi
diveniamo conformi a Gesù Cristo, che ha soddisfatto per i nostri peccati (273)
e da cui viene ogni nostra sufficienza (274), ed abbiamo una certissima caparra
che, se soffriamo insieme, insieme saremo anche glorificati (275).
Inoltre questa soddisfazione, che noi soffriamo per i nostri peccati, non è
talmente nostra, da non esserlo per mezzo di Gesù Cristo. Noi, infatti, che non
possiamo nulla da noi stessi (276), col suo aiuto però possiamo tutto in Lui
che ci rende forti (277). Quindi l’uomo non ha di che gloriarsi; ma ogni motivo
di lode è, per noi, riposto in Cristo (278), in cui viviamo (279), in cui
meritiamo, in cui diamo soddisfazione, facendo degni frutti di penitenza (280),
che da lui traggono il loro valore, da lui sono offerti al Padre, e che per via
sua sono accettati da Dio.
I sacerdoti del Signore, quindi, secondo che suggerirà lo spirito e la
prudenza, devono imporre salutari e giuste soddisfazioni, tenuto conto della
qualità dei peccati, e delle possibilità dei penitenti, affinché, qualora
fossero in qualche modo conniventi ai peccati e troppo indulgenti coi
penitenti, imponendo leggerissime opere di penitenza per gravissime colpe, non
diventino partecipi dei peccati degli altri.
Abbiano poi dinanzi agli occhi che la soddisfazione che impongono sia non
soltanto presidio per la nuova vita e medicina per la debolezza, ma anche pena
e castigo per i peccati passati. Che, infatti, le chiavi dei sacerdoti siano
state concesse non solo per sciogliere, ma anche per legare (281), lo credono e
lo insegnano anche gli antichi padri. Non per questo tuttavia essi pensarono
che il sacramento della penitenza fosse il tribunale dell’ira e delle pene.
Così come nessun cattolico credette mai che da queste nostre soddisfazioni
venisse oscurato, o in qualche parte diminuito il valore del merito e della
soddisfazione del Signore nostro Gesù Cristo.
Quando i novatori dimostrano di non voler comprendere ciò, essi insegnano
che la vita nuova è la miglior penitenza; ma in modo tale da togliere alla
soddisfazione ogni valore ed ogni utilità.
Capitolo IX.
Delle opere satisfattorie.
Insegna, inoltre, questo sinodo che la larghezza della munificenza divina è
così grande, che noi possiamo soddisfare presso Dio, per mezzo di Gesù Cristo,
non solo con le penitenze da noi scelte spontaneamente per scontare il peccato
o imposte a noi ad arbitrio del sacerdote secondo la gravità del peccato, ma
anche (ed è il segno più grande dell’amore) con i flagelli temporali, da Dio
inflittici e da noi accettati pazientemente.
Dottrina sul sacramento dell’estrema unzione.
È sembrato bene, poi, al santo sinodo aggiungere alla precedente dottrina
sulla penitenza ciò che segue sul sacramento dell’estrema unzione, considerato
dai padri come il perfezionamento e della penitenza e di tutta la vita
cristiana, che dev’essere una perpetua penitenza.
Come prima cosa, quindi, per quanto riguarda la sua istituzione, il
concilio dichiara e insegna che il nostro clementissimo Redentore - il quale
volle che fosse sempre provveduto ai suoi servi con rimedi salutari contro
tutti gli assalti di tutti i nemici - come ha disposto gli aiuti più efficaci
negli altri sacramenti con cui i cristiani, mentre vivono possano garantirsi
contro i più gravi mali spirituali, così col sacramento dell’estrema unzione ha
voluto munire la fine della vita con una fortissima difesa. Quantunque,
infatti, il nostro avversario cerchi ed afferri ogni occasione per divorare le
nostre anime in qualsiasi modo in tutta la vita (282), non vi è tempo, però, in
cui egli impieghi tutta la sua astuzia per perderci completamente e
allontanarci anche, se possibile, dalla fiducia nella divina misericordia, con
maggior veemenza, di quando egli vede che è imminente la fine della vita.
Capitolo I.
L’istituzione del sacramento dell’estrema unzione.
Questa unzione degli infermi è stata istituita come vero e proprio
sacramento del nuovo Testamento dal Signore nostro Gesù Cristo. Accennato da
Marco (283), è stato raccomandato ai fedeli e promulgato da Giacomo, apostolo e
fratello del Signore. Cade infermo qualcuno di voi? dice Chiami gli
anziani della chiesa; preghino su di lui; lo ungano con olio nel nome del
Signore. La preghiera della fede salverà l’infermo e il Signore lo solleverà. E
se si troverà nei peccati, gli verranno perdonati (284).
Con queste parole - come la chiesa ha imparato dalla tradizione apostolica,
trasmessa di mano in mano - egli insegna la materia, la forma, il ministro
proprio e l’effetto di questo salutare sacramento. La chiesa, infatti, ha
inteso che la materia è l’olio benedetto dal vescovo: l’unzione, infatti,
rappresenta in modo perfetto la grazia dello Spirito santo, da cui l’anima
dell’ammalato viene unta invisibilmente e che la forma sono le parole: Per
questa santa unzione, ecc.
Capitolo II.
Gli effetti di questo sacramento.
L’efficacia e l’effetto, inoltre, di questo sacramento viene spiegata dalle
parole: la preghiera della fede salverà l’infermo e il Signore lo solleverà.
E se si trovasse nei peccati, gli saranno perdonati (285). Questo effetto,
infatti, è la grazia dello Spirito santo, la cui unzione lava i peccati, se ve
ne fossero ancora da espiare, e le conseguenze del peccato; solleva e rafforza
l’anima dell’ammalato, eccitando in lui una grande fiducia nella divina misericordia.
L’infermo, sollevato da essa, sopporta più facilmente le molestie del male, e i
travagli; e resiste più facilmente alle tentazioni del demonio che insidia il
suo calcagno (286), e qualche volta, se giova alla salvezza dell’anima,
riacquista la salute del corpo.
Capitolo III.
Del ministro di questo sacramento e del tempo in cui bisogna amministrarlo.
Per quanto, poi, riguarda l’indicazione di coloro che devono ricevere e
amministrare questo sacramento, anche questo è stato indicato chiaramente nelle
parole predette: vi si indica, infatti, che ministri propri di questo
sacramento sono i presbiteri della chiesa, nome con cui si devono intendere, in
questo passo, non i più anziani o i più ragguardevoli del popolo, ma i vescovi,
o i sacerdoti da essi regolarmente ordinati con l’imposizione delle mani del
collegio dei sacerdoti (287).
Si dice anche che questa unzione dev’essere fatta agli infermi,
specialmente a quelli che sono ammalati tanto gravemente da dar l’impressione
che siano in fin di vita: per questo si chiama il sacramento dei moribondi.
Se gli infermi, ricevuta questa unzione, guariranno, potranno ancora
usufruire dell’aiuto di questo sacramento, quando cadessero in altro simile
pericolo di vita.
Non sono, quindi, da ascoltarsi in nessun modo quelli che, contro un
pensiero così aperto e chiaro dell’apostolo Giacomo, insegnano che questa
unzione è un’invenzione umana o un rito ricevuto dai padri, senza che abbia né
il comando di Dio, né la promessa della grazia. E così pure quelli (che dicono)
che essa è già cessata, quasi che nella primitiva chiesa avesse solo lo scopo
di ottenere la grazia delle guarigioni; e quelli che affermano che il rito e
l’uso che la chiesa Romana osserva nell’amministrazione di questo sacramento, è
in contrasto con quanto dice l’apostolo Giacomo, e che, quindi, bisogna
cambiarlo. E quelli, finalmente, che dicono che questa estrema unzione può
esser tranquillamente tenuta in nessun conto dai fedeli. Tutto ciò, infatti,
contrasta fortissimamente con le chiare espressioni di un così grande apostolo.
Del resto, la chiesa romana, madre e maestra di tutte le altre, non segue
altro, nell’amministrare questa unzione (per quanto riguarda la sostanza di
questo sacramento), se non quello che prescrisse S. Giacomo.
Né il disprezzo di un così grande sacramento potrebbe aver luogo senza
grande empietà e senza ingiuria dello stesso Spirito santo.
Questo è quanto il santo concilio ecumenico professa ed insegna sui
sacramenti della penitenza e dell’estrema unzione, e che propone a tutti i cristiani
perché lo credano e lo ritengano per vero. Ed afferma che i seguenti canoni
dovranno essere inviolabilmente osservati, condannando e anatematizzando per
sempre quelli che affermano il contrario.
CANONI SUL SANTISSIMO SACRAMENTO DELLA PENITENZA
1. Se qualcuno dirà che nella chiesa cattolica la penitenza non è un vero e
proprio sacramento istituito dal signore nostro Gesù Cristo, per riconciliare i
fedeli con Dio, ogni volta che cadono nei peccati dopo il battesimo, sia
anatema.
2. Se qualcuno, confondendo i sacramenti, dirà che il sacramento della
penitenza è lo stesso battesimo, quasi che questi due sacramenti non siano
distinti e che perciò la penitenza non può essere chiamata la seconda tavola di
salvezza, sia anatema.
3. Se qualcuno dirà che le parole del Salvatore: Ricevete lo Spirito
santo: saranno rimessi i peccati di quelli, cui li rimetterete e ritenuti a
quelli cui li riterrete (288) non devono intendersi del potere di rimettere
e di ritenere i peccati nel sacramento della penitenza, come sempre, fin
dall’inizio, ha interpretato la chiesa cattolica, e per contraddire
l’istituzione di questo sacramento, ne falsa il significato come se si
trattasse del potere di predicare il vangelo, sia anatema.
4. Se qualcuno negherà che per la remissione completa e perfetta dei
peccati si richiedano, nel penitente, come materia del sacramento della
penitenza, questi tre atti: la contrizione, la confessione e la soddisfazione,
che sono le tre parti della penitenza o dirà che due sole sono le parti della
penitenza, e cioè: i terrori indotti alla coscienza dalla conoscenza del
peccato e la fede, concepita attraverso il vangelo o l’assoluzione, per cui
ciascuno crede che gli sono rimessi i peccati per mezzo del Cristo, sia
anatema.
5. Se qualcuno dirà che quella contrizione, che si ottiene con l’esame, il
raccoglimento, e la detestazione dei peccati — per cui uno, ripensando alla
propria vita nell’amarezza della sua anima (289), riflettendo alla gravità,
alla moltitudine, alla bruttezza dei suoi peccati, alla perdita della
beatitudine eterna e all’essere incorso nella eterna dannazione, col proposito
di una vita migliore — non è un dolore vero ed utile, che non prepara alla
grazia, ma che rende l’uomo ipocrita e ancor più peccatore e che, finalmente,
essa è un dolore imposto, non libero e volontario, sia anatema.
6. Se qualcuno negherà che la confessione sacramentale sia stata istituita
da Dio, o che sia necessaria per volere divino o dirà che il modo di
confessarsi segretamente al solo sacerdote, come ha sempre usato ed usa la
chiesa cattolica fin dall’inizio, è estraneo all’istituzione e al comando del
Cristo ed invenzione umana, sia anatema.
7. Se qualcuno dirà che nel sacramento della penitenza non è necessario per
disposizione divina confessare tutti e singoli i peccati mortali, di cui si
abbia la consapevolezza dopo debita e diligente riflessione, anche occulti, e
commessi contro i due ultimi precetti del decalogo ed anche le circostanze che
mutassero la specie del peccato; o dire che la confessione è utile soltanto ad
istituire e consolare il penitente, e che un tempo fu osservata solo per
imporre la penitenza canonica; o che quelli che si studiano di confessare tutti
i peccati, non intendono lasciar nulla alla divina misericordia, perché lo
perdoni; o, finalmente, che non è lecito confessare i peccati veniali, sia
anatema.
8. Se qualcuno dirà che la confessione di tutti i peccati, come prescrive
la chiesa cattolica, è impossibile, e che si tratta di una tradizione umana,
che i buoni devono abolire, o che ad essa non sono tenuti, una volta all’anno,
tutti e singoli i fedeli dell’uno e dell’altro sesso, secondo la costituzione
del grande concilio Lateranense (290) e che, perciò, bisogna persuadere i
fedeli che non si confessino in tempo di quaresima, sia anatema.
9. Se qualcuno dirà che l’assoluzione sacramentale del sacerdote non è un
atto giudiziario, ma un semplice ministero di pronunciare e di dichiarare che i
peccati sono stati rimessi al penitente, purché solo creda di essere stato
assolto, anche nel caso che il sacerdote non lo assolva seriamente, ma per ischerzo; o dirà che non si richiede la confessione del
penitente, perché il sacerdote lo possa assolvere, sia anatema.
10. Se qualcuno dirà che i sacerdoti che sono in peccato mortale non hanno
il potere di legare e di sciogliere, o che non i soli sacerdoti sono ministri
dell’assoluzione, ma che a tutti i singoli i fedeli cristiani è stato detto: Qualsiasi
cosa avrete legato sulla terra, sarà legata anche in cielo; e qualsiasi cosa
avrete sciolto sulla terra, sarà sciolta anche nel cielo (291) e: A
quelli ai quali avrete rimesso i peccati, saranno perdonati, e a quelli, cui li
avrete ritenuti, saranno ritenuti (292) e che in virtù di queste parole
ciascuno possa perdonare peccati; e cioè: i peccati pubblici con la sola
riprensione, se colui che viene ripreso accetterà di buon animo; i segreti, con
una confessione spontanea, sia anatema.
11. Se qualcuno dirà che i vescovi non hanno il diritto di riservarsi dei
casi, se non in ciò che riguarda la disciplina esterna e che, quindi, la
riserva dei casi non impedisce che il sacerdote possa assolvere validamente dai
casi riservati, sia anatema.
12. Se qualcuno dirà che tutta la pena viene sempre rimessa da Dio insieme
alla colpa, e che l’unica soddisfazione dei penitenti è la fede, con cui
apprendono che Cristo ha soddisfatto per essi, sia anatema.
13. Se qualcuno dirà che per quanto riguarda la pena temporale, non si
soddisfa affatto, per i peccati, a Dio per mezzo dei meriti di Cristo con le
penitenze da lui inflitte e pazientemente tollerate, o imposte dal sacerdote; e
neppure con quelle che uno sceglie spontaneamente, come i digiuni, le
preghiere, le elemosine, o anche altre opere di pietà; e che, perciò, la
miglior penitenza è una vita nuova, sia anatema.
14. Se qualcuno dirà che le soddisfazioni, con cui i penitenti per mezzo di
Gesù Cristo cercano di riparare i peccati non sono culto di Dio, ma tradizioni
umane, che oscurano la dottrina della grazia e il vero culto di Dio e lo stesso
beneficio della morte del Signore, sia anatema.
15. Se qualcuno dirà che le chiavi sono state date alla chiesa solo per
sciogliere e non anche per legare e che, quindi, quando i sacerdoti impongono
delle penitenze a quelli che si confessano, agiscono contro il fine delle
chiavi e contro l’istituzione del Cristo e che è una finzione che, rimessa la
pena eterna in virtù delle chiavi, rimanga ancora la pena temporale da
scontare, sia anatema.
CANONI SUL SACRAMENTO DELL’ESTREMA UNZIONE
1. Se qualcuno dirà che l’estrema unzione non è un vero e proprio
sacramento, istituito da nostro signore Gesù Cristo (293), e promulgato dal
beato Giacomo apostolo (294), ma solo un rito tramandato dai padri o una
invenzione umana, sia anatema.
2. Se qualcuno dirà che l’unzione sacra degli infermi non conferisce la
grazia, non rimette i peccati e non solleva gli infermi, ma che ormai è in
disuso, quasi che un tempo sia stata solo la grazia delle guarigioni, sia
anatema.
3. Se qualcuno dirà che il rito e l’uso dell’estrema unzione, così come lo
pratica la chiesa cattolica, è in contrasto con quanto afferma san Giacomo
apostolo e che, quindi, deve essere cambiato e che può essere tranquillamente
disprezzato dai cristiani, sia anatema.
4. Se qualcuno dirà che i presbiteri della chiesa, che il beato Giacomo
apostolo esorta ad addurre presso l’infermo per ungerlo, non sono i sacerdoti
consacrati dal vescovo, ma gli anziani di ogni comunità e che perciò ministro
proprio dell’estrema unzione non è solo il sacerdote, sia anatema.
Decreto di riforma.
Proemio.
Poiché è ufficio proprio dei vescovi riprendere i difetti di tutti i
sudditi (295), essi devono guardarsi soprattutto da questo: che, cioè, i
chierici, specialmente quelli addetti alla cura delle anime, non commettano
colpe e non conducano, con la loro connivenza, una vita disonesta.
Se, infatti, permettessero che essi abbiano dei costumi perversi e
corrotti, come potrebbero poi riprendere i laici dei loro vizi (296), non
essere da questi confutati con la semplice osservazione che permettono che i
chierici siano peggiori di loro! E con quale coraggio i sacerdoti potrebbero
riprendere i laici, quando questi potrebbero rispondere tacitamente che essi
hanno commesso le stesse colpe che riprendono? (297).
Perciò i vescovi ammoniranno i loro chierici, di qualsiasi ordine siano,
perché precedano il popolo loro affidato nel comportamento, nel modo di
parlare, nella scienza, ricordandosi di quel detto: Siate santi, poiché io
sono santo (298). E, conforme all’espressione dell’apostolo, a nessuno
arrechino offesa, perché il loro ministero non venga disprezzato ed in tutto si
mostrino servi di Dio (299), perché non si debba verificare, in essi, il
detto del profeta: i sacerdoti di Dio contaminano le cose sante e disprezzano
la legge (300).
E perché gli stessi vescovi possano, in ciò, agire più liberamente e non
debbano essere impediti, con qualsiasi pretesto, lo stesso sacrosanto concilio
ecumenico e generale Tridentino, sotto la presidenza dello stesso legato e nunzi
della sede apostolica, ha creduto bene stabilire e fissare i seguenti canoni.
Canone I
Essendo cosa più onorifica e più sicura, per chi è soggetto servire in una
mansione più modesta, prestando la dovuta obbedienza ai propri superiori, che
tendere, con scandalo dei superiori alla dignità dei gradi superiori, a colui,
cui per qualunque motivo, - anche per un delitto occulto -, in qualsiasi modo,
anche senza una sentenza giudiziaria, dal proprio ordinario fosse stato
proibito di salire ai sacri ordini, o che fosse stato sospeso dagli ordini o
gradi o dalle dignità ecclesiastiche, a nulla gioverà la licenza di farsi
ordinare, concessa contro la volontà dell’ordinario, o la restituzione ai
primitivi ordini, gradi, dignità, onori.
Canone II
Alcuni vescovi di chiese che si trovano tra gli infedeli, mancando di clero
e di popolo cristiano, essendo quasi randagi, non avendo una sede fissa e
cercando non gli interessi di Gesù Cristo, ma le pecore degli altri, senza che
il pastore lo sappia, si vedono proibito da questo santo sinodo di esercitare i
loro poteri di vescovi in diocesi non loro, se non con espressa licenza
dell’ordinario, e solo su persone soggette allo stesso ordinario. Costoro,
beffandosi della legge e disprezzandola erigono una specie di cattedra episcopale
in luogo di diocesi e credono di poter insignire del carattere clericale e
perfino di promuovere agli ordini sacri del presbiterato, tutti quelli che
vanno ad essi, anche se non hanno le lettere dimissoriali dei loro vescovi o dei loro superiori.
Ne viene di conseguenza che sono ordinati proprio i meno adatti, i rozzi,
gli ignoranti e quelli che dal proprio vescovo sono stati rifiutati come
inadatti e indegni, quelli cioè che non sanno compiere i sacri ministeri, né
amministrare nel modo dovuto i sacramenti della chiesa.
Nessuno dei vescovi, che si dicono titolari, - anche se risiedono o si
trovano ad essere in luoghi non soggetti ad alcuna diocesi, anche esenti o in
qualche monastero di qualsiasi ordine -, senza il consenso espresso
dell’ordinario o le lettere dimissorie, possa promuovere ad alcun ordine
minore, alla prima tonsura il suddito di un altro, in forza di qualsiasi
privilegio provvisoriamente concessogli di poter promuovere chiunque venisse a
lui, neppure col pretesto che è suo familiare e commensale ordinario.
Chi facesse il contrario, sia sospeso per disposizione stessa del diritto,
dall’esercizio delle sue funzioni pontificali per un anno, chi poi fosse stato
in tal modo promosso, sia sospeso dall’esercizio degli ordini così ricevuti
fino che sembrerà al proprio ordinario.
Canone III
Il vescovo può sospendere dall’esercizio degli ordini ricevuti per tutto il
tempo che crederà e impedire che servano all’altare o in qualcuno dei loro
ordini, quei suoi chierici, specialmente se costituiti negli ordini sacri, che
fossero stati promossi senza suo precedente esame e senza sue lettere
dimissorie da qualsiasi autorità, anche se fossero stati giudicati adatti da
colui dal quale sono stati ordinati, ma che egli trovasse inadatti e incapaci a
celebrare i divini uffici o ad amministrare i sacramenti della chiesa.
Canone IV
Tutti gli ordinari locali - che devono attendere con ogni diligenza a
correggere le colpe dei loro sudditi, e da cui nessun chierico in forza delle
disposizioni di questo santo sinodo deve credersi tanto al sicuro, sotto
pretesto di qualsiasi privilegio, da non poter esser visitato, punito e
corretto secondo le sanzioni canoniche - se risiedono nelle proprie chiese,
hanno la facoltà di correggere e castigare, - anche fuori della visita -,
qualsiasi chierico secolare, in qualsiasi modo esente, che altrimenti sarebbe
soggetto alla loro giurisdizione, per le sue colpe, per i suoi crimini e
delitti, ogni volta o quando lo crederanno necessario, come delegati, in ciò,
della sede apostolica. Sotto questo rispetto, a nulla gioveranno agli stessi
chierici e ai loro consanguinei, cappellani, familiari, procuratori e a
chiunque altro, in vista e per riguardo agli stessi esenti, le esenzioni, le
dichiarazioni, le consuetudini, le sentenze, i giuramenti, gli accordi, che
obbligano soltanto quelli che li hanno stipulati.
Canone V
Inoltre, vi è chi sotto pretesto di ricevere ingiurie e molestie varie nei
propri beni, cose, diritti, ottiene che gli venga assegnato con lettere
conservatorie un giudice particolare che lo difenda e protegga da queste
molestie ed ingiurie, lo mantenga e lasci nel possesso o quasi possesso dei
suoi beni, cose, diritti, e non permetta che abbia noie, e trae quasi sempre
tali lettere, contro l’intenzione di chi le ha concesse, ad un significato
perverso.
Ora queste lettere conservatorie, qualsiasi clausola o decisione esse
contengano, qualsiasi assegnazione di giudici esse abbiano, con qualsiasi altro
pretesto o colore esse siano state concesse, non daranno diritto assolutamente
a nessuno, di qualsiasi dignità e condizione egli sia, neppure se fosse un
capitolo, di non poter essere accusato e condotto dinanzi al proprio vescovo o
ad altro superiore ordinario nelle cause criminali e miste, o che non possa
disporsi una inchiesta nei loro riguardi, e non si possa procedere (contro di
loro), o, anche se pure dalla concessione gli competono dei diritti, non possa
esser citato liberamente dinanzi al giudice ordinario proprio per questi
diritti.
Anche nelle cause civili, se egli fosse l’attore, non gli sia permesso in
nessun modo condurre qualcuno in giudizio, dinanzi ai suoi giudici
conservatori.
Se poi avvenisse che nelle cause, in cui egli figura come reo, quegli che
da lui è stato scelto come conservatore venisse giudicato sospetto dall’attore;
o anche se fra gli stessi giudici, conservatore e ordinario, sorgesse qualche
controversia sulla competenza della giurisdizione, non si proceda assolutamente
nella trattazione della causa finché non si sia deciso sul sospetto o sulla
competenza di giurisdizione con arbitri, eletti a norma di legge.
Ai familiari di colui che è solito difendersi con queste lettere
conservatorie, inoltre, esse non diano alcun diritto; lo daranno a due
soltanto, e solo nel caso che essi vivano a suo carico. Nessuno, inoltre, potrà
godere del favore di simili lettere per oltre un quinquennio. Non sarà neppure
lecito ai giudici conservatori erigere un proprio tribunale.
Nelle cause che riguardano i salari o persone poverissime rimanga in vigore
il decreto di questo santo sinodo, emanato sull’argomento (301).
Le università generali, i collegi di dotti o di scolari, i luoghi regolari,
gli ospedali che sono attualmente in esercizio; le persone di queste università
e collegi, luoghi ed ospedali, non devono assolutamente essere comprese in
questo canone, ma devono ritenersi ed essere realmente esenti.
Canone VI
Anche se l’abito non fa il monaco, è necessario tuttavia che i chierici
portino sempre l’abito conforme al proprio stato, così che le vesti esteriori
mostrino l’interiore onestà dei costumi. D’altra parte oggi la temerità e il
disprezzo della religione di alcuni è andata tanto oltre che, senza alcuna
stima per il proprio onore e la propria dignità clericale, essi portano vesti
da laici, anche pubblicamente, tenendo il piede in due staffe: sulle cose
divine e sulle umane; perciò tutte le persone ecclesiastiche, per quanto esenti
, che siano costituite negli ordini sacri o abbiano avuto dignità, personati,
uffici o benefici ecclesiastici di qualsiasi natura, se, dopo essere stati
ammoniti - anche con un semplice editto pubblico - dal loro vescovo, non
porteranno un decente abito clericale, conforme alle esigenze del loro stato e
della loro dignità e a quanto il vescovo ha ordinato e comandato, potranno e
dovranno esser costretti a ciò con la sospensione dagli ordini, dall’ufficio e
dal beneficio, da frutti, dai redditi e dai proventi degli stessi benefici. Se
poi, corretti una volta, mancassero in ciò di nuovo, siano puniti anche con la
privazione stessa di questi uffici e benefici. Il concilio inoltre rinnova ed amplia
la costituzione di Clemente V, emanata nel concilio di Vienne, che comincia con
la parola: Poiché... (302).
Canone VII
Chi ad arte e con insidie uccide il suo prossimo dev’essere allontanato
dall’altare (303), chi volontariamente ha commesso un omicidio, anche se questo
delitto non è stato provato attraverso un processo giudiziario e non è divenuto
in nessun modo di pubblica ragione, ma è rimasto occulto, non potrà mai esser
promosso ai sacri ordini e non potrà mai essergli assegnato alcun beneficio ecclesiastico,
anche privo di cura d’anime. Sia escluso per sempre da qualsiasi ordine,
beneficio, ufficio ecclesiastico.
Ma se si dovesse riconoscere che l’omicidio è stato commesso non di
proposito, ma per caso, o nel respingere la forza con la forza per difendersi
dalla morte, per cui secondo il diritto si dovrebbe in qualche modo dispensare
e ammettere anche al ministero dei sacri ordini e dell’altare e a qualsiasi
beneficio e dignità, la causa è rimessa all’ordinario del luogo, o, se vi è un
giusto motivo, al metropolita o al vescovo più vicino. Questi non potrà
dispensare se non dopo aver preso cognizione della causa e dopo che siano state
trovate vere le istanze e le testimonianze, e non altrimenti.
Canone VIII
Alcuni - e tra questi anche dei veri pastori che hanno proprie pecore -
cercano di comandare anche al gregge degli altri e qualche volta si prendono
cura talmente dei sudditi altrui, da trascurare i propri. Pertanto chiunque,
anche se rivestito della dignità vescovile, abbia il privilegio di punire i
chierici degli altri, per quanto possano essere rei dei delitti più gravi, non
dovrà in nessun modo procedere contro chierici a lui non soggetti, specie se
costituiti in sacris, se non con l’intervento
del vescovo degli stessi chierici, se risiede nella sua chiesa, o di persona da
designarsi dallo stesso vescovo. In caso diverso, il processo e quanto possa
seguire saranno nulli.
Canone IX
Molto saggiamente sono state distinte diocesi e parrocchie, e a ciascun
gregge sono stati assegnati propri pastori e propri rettori delle chiese
inferiori, i quali abbiano cura ciascuno delle proprie pecore. Perché l’ordine
ecclesiastico non sia turbato e una stessa chiesa non appartenga, in qualche
modo, a due diocesi, non senza grave incomodo dei suoi sudditi, i benefici di
una diocesi, anche se si trattasse di chiese parrocchiali, vicarie perpetue, o
semplici benefici, o prestimoni, o porzioni prestimoniali,
non vengano uniti per sempre ad un beneficio, o ad un monastero, o collegio, o
anche ad un luogo pio di altra diocesi, neppure allo scopo di accrescere il
culto divino, o il numero dei beneficiati, o per qualsiasi altro motivo. Con
ciò questo santo sinodo interpreta il proprio decreto su queste unioni (304).
Canone X
I benefici abitualmente assegnati in titolo ai religiosi professi, quando,
per la morte, per la rinunzia o per altro motivo di chi li ha in titolo, si
rendessero vacanti, siano conferiti solo a religiosi di quell’ordine o a chi
sarà assolutamente tenuto a prendere l’abito ed emettere la professione religiosa
e non ad altri (perché non indossino un abito intessuto insieme di lino e di
lana (305)).
Canone XI
I religiosi che passano da un ordine ad un altro ottengono facilmente dal
loro superiore il permesso di vivere fuori del monastero. Con ciò si dà occasione
di vagare qua e là e di venir meno alla professione religiosa.
Nessun prelato, quindi, o superiore di ordine religioso qualsiasi facoltà
egli abbia, può ammettere qualcuno all’abito e alla professione, se non a
condizione che rimanga per sempre in convento, nello stesso ordine, al quale
viene trasferito, nell’obbedienza al suo superiore. Chi è stato così trasferito
sia del tutto incapace di benefici secolari, anche con cura d’anime, anche se
fosse stato dei canonici regolari.
Canone XII
Nessuno, di qualsiasi dignità ecclesiastica o secolare possa essere, fuori
del caso di chi avesse fondato e costruito ex novo una chiesa, un
beneficio o una cappella, o di chi avesse dotato competentemente coi propri
beni patrimoniali una chiesa (cappella ecc.) già eretta, ma priva della dote
sufficiente, può o deve chiedere ed ottenere in nessuna maniera il diritto di
patronato.
Nel caso di fondazione o di dotazione, l’istituzione sia riservata al
vescovo e non ad altri a lui inferiore.
Canone XIII
Inoltre non sia lecito al patrono, col pretesto di qualsiasi privilegio,
presentare, in nessun modo, qualcuno per i benefici del suo diritto di
patronato, se non al vescovo ordinario del luogo, a cui spetterebbe la
provvista e l’istituzione dello stesso beneficio, se non vi fosse il
privilegio.
Diversamente, la presentazione e l’investitura che ne fosse seguita, siano
e vengano considerate nulle.
Il santo sinodo dichiara, inoltre, che nella futura sessione, già fissata
per il 25 gennaio del prossimo anno 1552, col sacrificio della messa si debba
trattare e discutere del sacramento dell’ordine e proseguire la materia della
riforma.
SESSIONE XV (25 gennaio 1552)
Decreto di proroga della pubblicazione dei canoni.
Secondo quanto fu stabilito nelle sessioni passate, questo santo concilio
universale in questi giorni ha trattato con somma cura e diligenza ciò che
riguarda il santissimo sacrificio della messa e il sacramento dell’ordine. Ciò
perché nella sessione di oggi, secondo il suggerimento dello Spirito santo, si
pubblicasse quanto era stato concluso su questi argomenti, assieme ai quattro
articoli sul sacramento dell’eucarestia, rimandati a questa sessione. Si
pensava che frattanto sarebbero giunti a questo sacrosanto concilio coloro che
si dicono protestanti, per riguardo ai quali era stata rimandata la
pubblicazione di questi articoli e ai quali era stato concesso il salvacondotto
perché potessero venire qui liberamente e senza alcun ritardo.
Ma poiché essi non sono ancora venuti e da parte loro sono state rivolte
preghiere a questo santo sinodo, perché la pubblicazione, che avrebbe dovuto
farsi in questo giorno, sia rimandata alla prossima sessione, lo stesso santo
sinodo, riunito legittimamente nello Spirito santo, sotto la presidenza dello
stesso legato e degli stessi nunzi, nella certa speranza che essi possano esser
qui senz’altro molto prima di quella sessione, avendo frattanto essi ricevuto
un salvacondotto in forma più ampia, nulla desiderando maggiormente che far
scomparire dalla illustrissima nazione germanica ogni dissenso e scisma
religioso, provvedere alla sua quiete, pace e tranquillità, pronto, se essi
verranno, ad accoglierli con generosità e ad ascoltarli benignamente; nella
fiducia che essi vorranno venire non per oppugnare ostinatamente la fede
cattolica, ma con desiderio di conoscere la verità e (com’è degno di chi ama la
verità del vangelo) adattarsi, alla fine, ai decreti e alla disciplina della
santa madre chiesa; perché essi abbiano tempo non solo di venire, ma di
proporre ciò che vogliono prima che giunga il giorno per pubblicare e rendere
di pubblica ragione quei punti che sono stati sopra toccati, ha rimandato la
seguente sessione al giorno di san Giuseppe, che sarà il 19 marzo.
E per togliere ad essi qualsiasi motivo di ulteriore ritardo, dà e concede
loro volentieri un salvacondotto, che sarà, nella sua sostanza e nel suo
contenuto, quale verrà letto.
Intanto, stabilisce e ordina che si debba trattare, nella stessa sessione,
del sacramento del matrimonio, e oltre alla pubblicazione dei decreti
accennati, definire questa materia; e che si debba proseguire la materia della
riforma.
Salvacondotto concesso ai protestanti tedeschi.
Il sacrosanto concilio ecumenico e generale Tridentino, legittimamente
riunito nello Spirito santo, sotto la presidenza dello stesso legato e degli
stessi nunzi della sede apostolica, conforme al salvacondotto concesso nella
penultima sessione, ed ampliandolo secondo quanto sarà detto, dà solenne
assicurazione di dare ed elargire assolutamente a tutti e singoli i sacerdoti,
gli elettori, i principi, i duchi, marchesi, i conti, i baroni, i nobili, i
militari, i cittadini semplici e a qualsiasi altra persona, di qualsiasi stato
e condizione, o qualità, della provincia e della nazione germanica; alle città
e ad altri luoghi di essa; e a tutti quegli altri ecclesiastici e secolari,
specie agli appartenenti alla confessione di Augusta, che insieme ad essi
verranno, o saranno mandati, o partiranno, o sono già venuti, comunque essi si
chiamino o possano esser chiamati; di concedere, dunque in forza delle presenti
pubblica fede e pienissima e verissima sicurezza, o salvacondotto, come lo
chiamano, di venire liberamente in questa città di Trento, di rimanere, stare,
dimorare in essa, di far proposte, di parlare, di trattare, esaminare,
discutere con lo stesso sinodo qualsiasi argomento, di presentare liberamente,
di diffondere, sia a parole che per iscritto, tutto ciò che ad essi piacerà, e
qualsiasi articolo; di spiegarli, presentarli e cercare di persuaderne gli
altri con le sacre scritture, con espressioni, sentenze, argomentazioni dei
santi padri, e, se necessario, di rispondere anche alle obbiezioni del concilio
generale, e di disputare cristianamente o di conferire caritatevolmente e senza
alcun impedimento con quelli che fossero stati scelti dal concilio, senza usare
in nessuna maniera schiamazzi, modi offensivi ed ingiuriosi. Ed in modo
particolare, che i problemi controversi siano trattati, in questo concilio
Tridentino, secondo la sacra scrittura, le tradizioni apostoliche, i legittimi
concili, il consenso della chiesa cattolica e le affermazioni dei santi padri.
Aggiungiamo anche che non saranno puniti per motivi religiosi o per delitti
commessi o che verranno commessi contro la religione. Così che per la loro
presenza non si cessi dalla celebrazione degli uffici divini, sia durante il
loro viaggio, o nel venire, nel rimanere, nel ritornare in qualsiasi luogo,
neppure nella stessa città di Trento; e che, concluse o non concluse queste
cose, in qualsiasi momento ad essi piaccia, per volere o con l’approvazione dei
loro superiori desidereranno tornare alle proprie terre, o lo desiderasse
qualcuno di essi, senza alcuna opposizione, scusa, ritardo, possano subito
andarsene come essi vogliono, liberamente e tranquillamente, con le loro cose,
il loro onore, le loro persone sane e salve, dopo aver avvertito, naturalmente,
quelli che saranno incaricati dallo stesso concilio, perché si possa
opportunamente provvedere alla loro sicurezza senza inganno e senza frode.
Il santo sinodo vuole anche che in questa pubblica dichiarazione di fede, o
salvacondotto, vengano incluse - e si abbiano realmente per incluse - e siano
contenute tutte quelle clausole che saranno necessarie ed opportune per la
piena, efficace e sufficiente sicurezza nel viaggio, nella permanenza, nel
ritorno.
Per maggior sicurezza e per facilitare il bene della pace e della
riconciliazione dichiara anche che se uno di loro (o anche più) sia nel
viaggio, venendo a Trento, sia mentre dimorano lì o mentre tornano, facesse o
commettesse qualche cosa di grave (che Dio non voglia!), per cui il privilegio
della pubblica fede e della sicurezza, loro concesso, possa essere annullato o
cancellato, il sinodo vuole e concede che quelli che fossero stati trovati
colpevoli di questo delitto siano subito puniti da essi soltanto, e non da
altri, con una punizione giusta, e con ammenda sufficiente, da potersi
approvare e lodare da parte di questo sinodo, rimanendo intatti la forma, le
condizioni, e i modi della sicurezza.
Vuole ugualmente che se qualcuno, - uno o più che siano -, da parte del
sinodo sia durante il viaggio, che durante la permanenza, o il ritorno, facesse
o commettesse (che Dio non voglia!) qualche cosa di grave, per cui potesse
considerarsi violato o in qualsiasi modo esser tolto il privilegio della
pubblica fede e sicurezza, quelli che fossero trovati colpevoli di un simile
delitto, solo dal sinodo, e non da altri, vengano subito puniti con un degno
castigo e con una ammenda tale, che possa esser lodata e approvata giustamente
da parte dei signori della confessione di Augusta, allora qui presenti,
rimanendo intatti la forma, le condizioni, i modi del salvacondotto.
Vuole, inoltre, il medesimo sinodo, che tutte le volte che sarà opportuno e
necessario sia permesso a tutti e singoli gli ambasciatori di uscire dalla
città di Trento per prendere un po’ d’aria e tornare in essa; mandare o
destinare il loro o i loro incaricati in qualsiasi posto per curare i loro
affari più urgenti; e ricevere gli stessi incaricati o inviati o l’incaricato e
inviato, quando ad essi sembrerà opportuno, in modo tale, però, che alcuni, o
qualcuno, siano loro associati dagli incaricati del concilio, perché provvedano
o provveda alla loro sicurezza.
Questo salvacondotto e queste garanzie di sicurezza dovranno valere e
durare dal tempo e per il tempo in cui essi saranno presi sotto cura e difesa
dello stesso sinodo e dei suoi rappresentanti e condotti fino a Trento; e per
tutto il tempo della loro permanenza in questo luogo; e poi, di nuovo, - dopo
che avranno avuto la debita udienza ed uno spazio di altri venti giorni, quando
essi lo chiederanno, o, concessa ad essi l’udienza, il concilio comandasse loro
di andarsene - con l’aiuto di Dio li riporterà da Trento fino al luogo che
ciascuno riterrà come sicuro per sé, senza alcun inganno o frode.
Esso promette e garantisce in buona fede che tutte queste disposizioni
saranno inviolabilmente osservate da tutti e singoli i cristiani, da tutti i
principi, sia ecclesiastici che secolari, di qualsiasi stato o condizione essi
siano o con qualsiasi nome siano indicati.
Esclusa, inoltre, qualsiasi frode ed inganno, con la più sincera buona fede
promette che il sinodo non cercherà alcuna occasione, palesemente o di
nascosto, e non farà uso, in nessun modo, della sua autorità, del suo potere,
di qualche suo diritto o statuto o privilegio di leggi e canoni o di qualsiasi
concilio, specie quelli di Costanza e di Siena, che possa riuscire di qualche
pregiudizio a questa fede pubblica, a questa solenne assicurazione e alla
pubblica e libera udienza; e non permetterà che alcuno se ne serva, derogando
per questa volta a tutte quelle disposizioni.
Che se il santo sinodo o qualche suo membro, o qualcuno della sua parte, di
qualunque condizione, stato, preminenza, violerà (che Dio, però, voglia
degnarsi di tener lontano questa eventualità) in qualsiasi punto e clausola la
forma e il modo della assicurazione del salvacondotto ora recitato senza che ne
sia seguita immediatamente la dovuta ammenda, da approvarsi e da lodarsi
giustamente secondo il loro giudizio, ritengano pure - e potranno ritenere
davvero - che il sinodo è incorso in tutte quelle pene, nelle quali secondo il
diritto divino e umano o la consuetudine, possono incorrere i violatori di
questi salvacondotti, senza scuse e senza che, in ciò, si possa opporre
alcunché.
SESSIONE XVI (21 aprile 1552)
Decreto di sospensione del concilio.
Il sacrosanto concilio ecumenico e generale Tridentino, legittimamente
riunito nello Spirito santo, sotto la presidenza dei reverendissimi signori
Sebastiano, arcivescovo di Siponto, e Luigi, vescovo di Verona, nunzi
apostolici, a nome sia loro proprio che del reverendissimo ed illustrissimo
signore Marcello Crescenzi, cardinale legato della
santa chiesa romana, assente per lo stato assai cagionevole della sua salute,
non dubita esser palese a tutti i cristiani come questo concilio ecumenico
prima sia stato convocato e riunito a Trento da Paolo III, di felice memoria; e
poi ripreso dal santissimo signore nostro Giulio III, dietro preghiera di Carlo
V, augustissimo imperatore, specialmente per questo motivo: perché potesse
ricondurre alla condizione originaria la religione, in più parti del mondo, e particolarmente
in Germania, divisa penosamente tra tante opinioni, e correggere gli abusi e i
costumi corrottissimi dei cristiani.
A questo scopo, moltissimi padri, senza alcun riguardo alle fatiche e ai
pericoli, confluirono prontamente dalle diverse regioni e già le cose
procedevano speditamente e felicemente per il grande concorso dei fedeli; vi
era una ben fondata speranza che quella parte di Tedeschi che aveva suscitato
quelle novità sarebbe venuta al concilio e sarebbe stata così ben disposta da
cedere unanimamente alle vere argomentazioni della
chiesa; che, finalmente, sarebbe spuntata una certa luce sulle cose e che la
cristianità, prima sconfitta e travagliata, avrebbe cominciato ad alzare il
capo; quand’ecco improvvisamente sorgere tali tumulti e scoppiare tali guerre,
per la scaltrezza del nemico del genere umano, che il concilio ha dovuto quasi
arenarsi ed interrompere, con suo grave disappunto, il suo corso; ed ogni
speranza di qualsiasi ulteriore progresso è venuta meno. E il santo sinodo era tanto
lontano dal portare rimedio ai mali dei cristiani e alle loro difficoltà, che
sembrava piuttosto proprio contro quanto desiderava - irritare molti, piuttosto
che placarli.
Perciò lo stesso santo sinodo, vedendo dappertutto, specie in Germania,
ardere la guerra e le discordie; visto che quasi tutti i vescovi della Germania
(e particolarmente i principi elettori) avevano lasciato il concilio per
provvedere alle loro chiese, ha creduto bene doversi adattare a tanta necessità
e tacere fino a tempi migliori, perché i padri possano tornare alle loro chiese
e poterne avere cura - cosa loro impossibile ora - e non debbano consumarsi
nell’ozio. Così, poiché la condizione dei tempi lo richiede, esso decide di
sospendere la prosecuzione di questo concilio ecumenico Tridentino, per lo
spazio di due anni (e di fatto lo sospende col presente decreto), con la
clausola, però, che se le cose dovessero placarsi più presto e dovesse tornare
l’antica pace (e spera proprio che, con l’aiuto di Dio ottimo massimo, ciò
debba verificarsi entro uno spazio di tempo non troppo lungo), la ripresa del
concilio abbia immediatamente forza, stabilità, vigore. Se poi (che Dio non
voglia!) dopo questo biennio, i legittimi impedimenti, di cui abbiamo parlato,
non saranno stati rimossi, la sospensione si intenda annullata non appena essi
cesseranno e senza bisogno di nessuna altra convocazione, si ritenga restituito
al concilio il suo antico vigore e la sua forza, tanto più che a questo decreto
si aggiunge il consenso e l’autorità di sua santità e della sede apostolica.
Nel frattempo, tuttavia, il santo sinodo esorta tutti i prìncipi cristiani
e tutti i prelati, perché osservino e facciano rispettivamente osservare nei
loro regni e nei loro domini e chiese, per quanto spetta loro, tutte e singole
le prescrizioni che finora sono state stabilite e disposte da questo concilio
ecumenico.
Note
201. Cfr. Mt 13, 24-30.
202. Cfr. Gv 14, 26; 16, 13; Lc 12, 12.
203. Cfr. Mt 19, 26; Lc 18, 27.
204. Cfr. Mt 26, 26-28; Mc 14, 22-24; Lc 22, 19-20.
205. Cfr. I Cor 11, 24-25.
206. I Tm 3, 15.
207. Sal 110, 4.
208. Cfr. Lc 22, 19; I Cor 11, 24.
209. I Cor 11, 26.
210. Gv 6, 58.
211. Cfr. I Cor 11, 3; Ef 5, 23.
212. Cfr. I Cor 1, 10.
213. Cfr. AGOSTINO, De civitate Dei, X, 5
(CSEL 40, 452).
214. Cfr. Mt 26, 26; Mc 14, 22; Lc 22, 19.
215. Cfr. Rm 6, 9.
216. Cfr. Lc 22, 19; Gv, 6, 48-59; I Cor 11, 24.
217. Cfr. AMBROGIO, De sacr., IV, 4-5 (PL 16,
458-464).
218. Eb 1, 6.
219. Cfr. Mt 2, 11.
220. Cfr. Mt 28, 17; Lc 24, 52.
221. Cfr. bolla Transiturus di Urbano IV del
1262 che istituiva la festa del Corpus Domini.
222. Concilio Niceno I, c. 13 (v. sopra).
223. Concilio Lateranense IV, c. 20 (v. sopra).
224. I Cor 11, 29.
225. I Cor 11, 28.
226. Gal 5, 6.
227. Cfr. Mt 22. 11-14.
228. Lc 1, 78.
229. Cfr. Gv 6, 48-59.
230. Cfr. Mt 6, 11.
231. Cfr. Sal 77, 25.
232. I Pt 5, 2-4; I Tm 3, 2-4; Tt 1, 7-9.
233. Cfr. II Tm 4, 2.
234. LEONE I, Ep. 14 ad Anast. (PL 54, 669).
235. Cfr. GEROLAMO, Comm. in ep. ad Gal. III, 5, n. 489 (PL 26, 430); AGOSTINO, De corrept. et gr., 15, n. 46 (PL 44, 943 segg.).
236. Cfr. Concilio Lateranense IV, c. 35 (V. sopra).
237. Rm 8, 22.
238. Cfr. I Cor 1, 10.
239. Cfr. Fil 2, 2.
240. Ef 2, 4.
241. Sal 102, 14.
242. Ez 18, 30.
243. Lc 13, 3.
244. At 2, 38.
245. Gv 20, 22-23.
246. I Cor 5, 12.
247. Cfr. Gal 6, 10.
248. Cfr. I Cor 12, 12-13.
249. Cfr. Gal 3, 27.
250. Cfr. GREGORIO NAZIANZENO, Oratio 39 in
sancta lumina, n. 17 (PG 36, 355-356).
251. Ez 18, 31.
252. Sal 50, 6.
253. Sal 6, 7.
254. Is 38, 15.
255. Cfr. Gn 3, 5.
256. Cfr. Gc 5, 6; I Gv 1, 9; Lc 5, 14 e 17, 14.
257. Cfr. Mt 16, 19; 18, 18; Gv 20, 23.
258. Cfr. AMBROGIO, De Cain et Abel, II, 4
(CSEL 32/1, 391).
259. Cfr. Es 20, 17; Dt 5, 21; Mt 5, 28.
260. Cfr. Ef 2, 3.
261. Sal 18, 13.
262. Cfr. Concilio Lateranense IV, c. 21 (v. sopra).
263. Mt 18, 18.
264. Gv 20, 23.
265. Cfr. Rm 13, 1.
266. II Cor 10, 8; 13, 10.
267. Cfr. Gen 3, 14-19; Nm 12, 14-15;
20, 11-12; II Re 12, 13-14.
268. Cfr. I Cor 3, 17.
269. Cfr. Ef 4, 30.
270. Cfr. Eb 10, 29.
271. Cfr. Rm 2, 5; Gc 5, 3.
272. Cfr. Mt 3, 2 e 8; 4, 17; 11, 21.
273. Cfr. Rm 5, 10; I Gv,
2, 1-2.
274. Cfr. II Cor 3, 5.
275. Cfr. Rm 8, 17.
276. Cfr. II Cor 3, 5.
277. Cfr. Fil 4, 13.
278. Cfr. I Cor 1, 31; II Cor 10, 17; Gal 6, 14.
279. Cfr. At 17, 28.
280. Lc 3, 8; Mt 3, 8.
281. Cfr. Mt 16, 19; 18, 18; Gv 20, 23.
282. Cfr. I Pt 5, 8.
283. Cfr. Mc 6, 13.
284. Gc 5, 14-15.
285. Gc 5, 15.
286. Cfr. Gen 3, 15.
287. I Tm 4, 14.
288. Gv 20, 22-23.
289. Cfr. Is 38, 15.
290. Concilio Lateranense IV, c. 21 (v. sopra).
291. Mt 18, 18.
292. Gv 20, 23.
293. Cfr. Mc 6, 13.
294. Cfr. Gc 5, 14-15.
295. Cfr. Concilio Lateranense IV, c. 7 (v. sopra).
296. Cfr. I Cor 9, 27.
297. Cfr. GEROLAMO, Comm. in ep. ad Titum, 1, 6 (Pl 26, 598).
298. Lv 11, 44; 19, 2.
299. II Cor 6, 3-4.
300. Cfr. Ez 22, 26; Sof 3, 4.
301. Cfr. Sessione VII, c. 14 de ref. (v. sopra).
302. Concilio di Vienne, c. 9 (COD, 365).
303. Cfr. Es 21, 14.
304. Sessione VII, c. 6 de ref. (v. sopra).
305. Cfr. Dt 22, 11.